Poesia di Domenico Marras
Uri
Qui nacqui, umile naturalmente,
Come il ceppo d'altronde.
Misero ci crebbi e vissi:
Pane rado e scarso,
Pruriginose e sfilacciate vesti,
Canne e tegole sconnesse.
Pure umile fu il mestier mio:
Governante di armenti e greggi
O zappatore di cistosa terra,
Sempre avara, benché stabbiata.
Solo la mente, pur limusinando,
Non fu scarna e cenciosa,
Anzi, fu prode nella tua difesa
Quando ingrato figlio
Giù ti sospinse.
Oh! Uri, si, è vero:
Non tua è l'abbondanza
Ne la diletta sposa,
Ne i diletti figli,
Ma per questo avar non fosti:
Non potesti piuttosto;
Ma se anche avar tu fossi
Ugualmente l'amor mio avresti,
E con ugual gioia verrei
Per mirar la care cose antiche:
Quattro mura che non ci son più,
La contenuta gente, spenta e sparsa,
Che meco spartiva tozzo e cicca,
Di cui sol Francesco, e a stento, vedo,
Se debellando non sta mali altrui;
Le donnette del vicinato mio,
Di mani e lingua laboriose;
Gli stimati vecchi, lor mariti,
Rozzi ma arguti e saggi;
Del rione le dissestate vie:
Qua ciottolato la battuta terra,
Che monellando spesso io percorsi:
Un calcio del deretano alla gallina,
Al cane, se grosso, una sassata,
All'asinello la mosca cavallina;
Zorro, il cane di Pietro Alvau,
Che spesso mi privò del magro pasto;
Le galline ruspar vermosa terra
O corteggiare l'indefesso gallo,
Lo sgattaiolar al ringhiar del cane,
Ed ugualmente, ad ogni addio,
Gola e cuor mi stringeresti.