Poesia di Tony Basili
Dalle Metamorfosi di Ovidio
Sono dei o semidei che mutan corpi,
Oppure eroi, gente buona o facoltosa
Ma anche umile, in civette e corvi
O mucche e pesci oppure in una cosa,
come Aretusa ed Egeria che fé fonti
mentre Eco diventa quel che senti
quando gridi e la voce par che inondi
tutto intorno da cui ne hai riscontri.
E pur cambi avvengon d’altro tipo
Come pur quello d’Ifide cretese
Che di donna cambiò non solo il viso
E maschio fu, chissà per quali offese
Arrecate a chi questo mondo regge
Che in tal modo mutando lo corregge.
E la mutazione avviene in chi intelletto
Fuori e contro gli dei o la natura
utilizzi sì scadendo dal cospetto
Di chi lo regge e però non si snatura
Il suo sentire che rimane tale e quale
E questo pure aumenta molto il male.
Si vede dunque e rileva la decadenza
Del generato subendo un tale moto
Con subitaneo processo in permanenza
di vita e sì le pietre che lancian nel vuoto
Pirra e Deucalione, invece vanno in alto
E dell’umana specie prendono lo smalto.
Ciò narra il poeta sommo di Sulmona
Che va a Roma e non trova il mio paese
Ma lo immaginò e ne costruì un’icona
Per vaganti geni di cui fa le prese
Ed è per ciò che crebbe poi un castello
Perché dal colle il pensar fosse più snello.
In quel che narra prendo dall’inizio,
Da quando il mondo tutto fu creato
E quel che espone porta pur l’indizio
Di ciò che nel tempo vien maturato
E come sempre un’opera sì fatta
Carmen perpetuum chiama e mi si adatta.
Non so perché proprio qui son giunto,
Forse il film visto m’ha portato Ovidio,
Il Primo Re, che era sporco e unto
Il cui girar a Rovere certo non invidio
Che fa pensare che non sol per morte
C’è il divenire segnato dalla sorte.
Ed è per caso che qui son arrivato
E di elementi c’è una gran materia
E giunto a questo che credo sia un guado
Per un buon impegno che non miseria
Faccia apparire questa restante vita
Che molto spesso mi pare irretita.
Questa mattina quando appena sveglio
m’è giunto l’occhio sul sommo poeta
mi son detto che altro c’è di meglio
che riprender un po’ della sua creta
per avvicinarmi a quel che appare sacro
del mutamento di cui ognun è simulacro?
Inizio ciò col passo che s’addice
che è un pò cauto quasi da somaro
e andando avanti se alle Muse lice
spero s’adatti ad un andar più chiaro
e presentar possa con la mia rima
quel che d’esametro lui ha posto in cima.
Ed ancor vorrei volar miei cari amici
Per i regni che il poeta ha disegnato
E col la licentia vatum le cornici
Seguire o rifare com’è dettato
E intanto libo a lor che diano aiuto
Chè sol l’idea val men d’uno sputo.
All’inizio dice ch’era Caos tutto,
La terra e l’acqua, al cielo mescolato,
Ma il sommo Dio il poter suo mise a frutto
E ogni genere dall’altro è separato
Sì che divise il ciel, la terra e le acque
E appena fatto lo guardò e gli piacque.
Gli dei ed i semidei in questo regno
Vissero ben ma era talmente grande
Che pensò Giapeto di inserirci un segno
Del divin spirto in ogni ove esalante
E con ingegno si mise a plasmar l’uomo
Che da pascià visse in questo duomo.
Ne ebbe il consenso dal sommo Dio
Che teneramente osservava la creatura,
Che all’inizio era cauto e molto pio
Ed era il signor di tutta la natura
Che produceva frutta e miele in ogni luogo
Senza lavorar, così era un bel giuoco.
Le cose eran comuni sicchè il mio
Era pur suo e loro e vostro tutto
E così dovea restar se da qualche svio
Non si fosse mostrato sì ex abrupto
Che facea comodo avere un po’ di roba
E si iniziò a scerner chi suda e sgobba.
Priva di leggi e aurea fu la prima età
E senza richiamo la virtù si praticava,
Tutto era improntato a grande bontà,
di corniole e ghiande ognun s’alimentava,
Ma poi Saturno da Giove fu cacciato
E l’uomo iniziò ad esser angustiato.
Chè quando questi divenne re del cielo
I modi d’essere cambiarono all’istante
E con l’argento la bontà subì un velo
Poi col bronzo, un’età venne pesante
E con il ferro, continue eran le guerre
Fra le tribù che ambivano alle terre.
L’umanità divenne sì cattiva
Che Giove pensò che andava riformata
Non c’era più il divin spiro che nutriva
Amore e lealtà che s’ era dimenticata
Sicché pensò di far l’ultima prova
Se tra la gente il senno mai si trova.
Ma disceso che fu dall’alto dei cieli
Andando in giro per varie contrade
una sfrontatezza scorse senza veli
laida e presente per tutte le strade
e saggiare volle ancora Licaone
Re d’Arcadia per decider la sanzione.
Questo avea fama d’esser sì malvagio
Da parer folle e volle averne prova
E così ci andò durante quel viaggio
E della malvagità ebbe un’altra nova
Che attentò perfino alla sua vita
E a mangiar carni umane pur l’invita.
Perciò Giove ne fu così sdegnato
Che con un colpo distrusse la sua casa
E ramingo al vento fu assegnato
Che ne cambiò aspetto e la faccia rasa
Si riempì di peli e aguzzi denti
Spuntan dalle fauci e ringhii violenti.
La terra che era allora un bel giardino
Fu così invasa da bestie feroci
Ed un pitone pur venne vicino
A Febo assopito che con dardi veloci
Lo colpì a morte poi se lo mise al collo
Per dimostrare che non era un pollo.
E mentre andava con la preda e l’arco
Vede Cupido in giro col suo archetto
E ne rise Febo della sua preda carco
Ma tanto s’infuriò il piccoletto
Che pensò “bene ora t’aggiusto io”
E con una freccetta d’oro colpì il dio
Che innamorato era di una bella ninfa,
Molto ritrosa, che a cercare andava
Per mostrar la preda e goder della linfa
Della sua bocca che tanto anelava
Ma una ferrea freccia le lancia Cupido
Ché se vede il dio fugge con un grido.
Pur quella freccia era portentosa
Che incute a Dafne maggiore ritrosia,
Mentre l’aurea una brama ansiosa
Sicchè lui la chiama, ma lei corre via,
E se l’insegue, lei più svelta fugge
Mentre il dio la chiama e per lei si strugge.
Ma quando sta per essere raggiunta
Invoca Diana di cui è assai devota
Di salvarla dall’esser a lui congiunta
Ed in un attimo la sua testa nota
inverdire con foglie lisce e verdi
E gli occhi e il viso ne son ricoperti.
Così Febo che l’avea quasi raggiunta
Ad una pianta si trova abbracciato
Ma lei pensa che a salvarsi è giunta
E che la purezza sua non ha contaminato
Mentre il dio smania e la tiene stretta
Ma è tronco ormai e non si dà fretta.
Lo chiama Alloro che di fronde s’empie
Verdi e lisce e dice: “è la mia pianta”
E d’ora in poi dei vincitor le tempie
Incoronate saran da questa pianta santa
E se la stringe ma la corteccia tiene
E la bacia tanto che infin ne sviene.
S. Marinella 5.2.19