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Racconto di Elsa Morante - Il padre di Arturo
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Racconto di EIsa Morante
Il padre di Artuto 

Un padre irraggiungibile, quasi sempre lontano, oppure presente con una sua impenetrabilità e un suo mistero che affascinano il figlio, abituato alla solitudine e alla attesa.
Arturo e suo padre sono una coppia stranamente legata.
Vivono a Procida, fuori dell'abitato, in una casa vecchia e quasi abbandonata, in cui da lungo tempo non c'è traccia di una presenza femminile.
Un po' selvaggio, solitario, randagio, Arturo vede in quel suo padre sempre di passaggio un sovrano pieno di gloria. È fiero di lui quando può accompagnarlo, nei suoi rari  soggiorni sull'isola, per le strade del paese, in mezzo ai procidani che il ragazzo si immagina ammirati a guardarli.
Arturo e fiero di poterlo imitare nel modo di vestire trasandato, nei gesti, nella sicurezza con cui domina gli elementi naturali.
Così il padre è insieme «una grazia straordinaria », una figura da imitare, un possesso da ostentare.

Mio padre viveva, la maggior parte del tempo, lontano. Veniva a Procida per qualche giorno, e poi ripartiva, certe volte rimanendo assente per intere stagioni.
A fare la somma dei suoi rari e brevi soggiorni nell'isola, alla fine dell'anno si sarebbe trovato che, su dodici mesi, egli forse ne aveva passato due a Procida, con me.
Così, io trascorrevo quasi tutti i miei giorni in assoluta solitudine; e questa solitudine, cominciata per me nella prima infanzia (con la partenza del mio balio Silvestro), mi pareva la mia condizione naturale.
Consideravo ogni soggiorno di mio padre sull'isola come una grazia straordinaria da parte di lui, una concessione particolare, della quale ero superbo.

Credo che avevo da poco imparato a camminare, quand'egli mi comperò una barca. E quando avevo circa sei anni di età, un giorno mi portò al podere, dove la cagna pastora del colono allattava i suoi cuccioli d'un mese, perché me ne scegliessi uno. lo scelsi quello che mi pareva il più indiavolato, e con gli occhi più simpatici. Si rivelò che era una femmina; e siccome era bianca come la luna, fu chiamata Immacolatella.
Quanto poi al fornirmi di scarpe, o di vestiti, mio padre se ne ricordava assai di rado.
Nell'estate, io non portavo altro indumento che un paio di calzoni, coi quali mi tuffavo anche in acqua, lasciando poi che l'aria me li asciugasse addosso.
Solo raramente aggiungevo ai calzoni lilla maglietta di cotone, troppo çorta, tutta strappata e slentata . Mio padre, in più di me, possedeva un paio di calzoncini da bagno di tela coloniale, 
ma, fuori di questo, anche lui, nell'estate, noli portava mai altro vestito che dei vecchi pantaloni stinti, e una camicia senza più un solo bottone, tutta aperta sul petto.
Qualche volta, egli si annodava intorno al collo un fazzolettone a fiorami, di quelli che le contadine comperano al mercato per la messa della domenica. E quello straccio di cotone, addosso a lui, mi pare il segno d'un primato , una collana di fiori che attesta il vincitore glorioso!

Né io né lui possedevamo nessun cappotto. D'inverno, io portavo due maglioni, uno sull'altro; e lui, sotto, un maglione, e, sopra, una giacca di lana a quadri, usata e informe, dalle spalle eccessivamente imbottite, che aumentavano il prestigio della sua alta statura.
L'uso della biancheria sotto i vestiti, ci era quasi del tutto sconosciuto.

Egli possedeva un orologio da polso (con la cassa d'acciaio, e il bracciale, anch'esso, di pesante maglia d'acciaio), che segnava anche i secondi, e si poteva portare anche in acqua.
Possedeva inoltre una maschera, per guardare sott'acqua nuotando, un fucile, e un binocolo da marina con cui si poteyano distinguere le navi che viaggiavano in alto mare, con le figurine dei marinai sul ponte.

La mia infanzia è come un paese felice, del quale lui è l'assoluto regnante!
Egli era sempre di passaggio, sempre in partenza; ma nei brevi intervalli che trascorreva a Procida, io lo seguivo come un cane. Dovevamo essere una buffa coppia, per chi ci incontrava!
Lui che avanzava risoluto, come una vela nel vento, con la sua bionda testa forestiera, le labbra

gonfie e gli occhi duri, senza guardare nessuno in faccia. E io che gli tenevo dietro, girando fieramente a destra e a sinistra i miei occhi mori, come a dire: "Procidani, passa mio padre!"
La mia statura, a quell'epoca, non oltrepassava di molto il metro, e i miei capelli neri, ricciuti

come quelli di uno zingaro, non avevano mai conosciuto il barbiere (quando si facevano troppo lunghi, io, per non esser creduto una ragazzina, me li accorciavo energicamente con le forbici; soltanto in rare occasioni mi ricordavo di pettinar li; e nella stagione estiva erano sempre incrostati di sale marino).
Quasi sempre la nostra coppia era preceduta da Immacolatella, la quale correva avanti, ritornava indictro, annusava tutti i muri, metteva il muso in tutte le porte, salutava tutti.
Le sue familiarità verso i compaesani mi facevano spaiientire spesso, e con fischi imperiosi io la richiamavo al rango dei Gerace .
Avevo, così, un'occasione per esercitarmi nei fischi. Da quando avevo cambiato i denti, ero diventato maestro in quest'arte. Mettendomi in bocca l'indice e il medio, sapevo trarre dei suoni marziali .

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