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Poesia di Cesare Pavese - Fumatori di carta
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Poesia di Cesare Pavese
Fumatori di carta

Mi ha condotto a sentir la sua banda. Si siede in un angolo
e imbocca il clarino. Comincia un baccano d'inferno.
Fuori, un vento furioso e gli schiaffi, tra i lampi,
della pioggia fan si che la luce vien tolta,
ogni cinque minuti. Nel buio, le facce
danno dentro stravolte, a suonare a memoria
un ballabile. Energico, il povero amico
tiene tutti, dal fondo. E il clarino si torce,
rompe il chiasso sonoro, s'inoltra, si sfoga
come un'anima sola, in un secco silenzio.

Questi poveri ottoni son troppo sovente ammaccati:
contadine le mani che stringono i tasti,
e le fronti, caparbie, che guardano appena da terra.
Miserabile sangue fiaccato, estenuato
dalle troppe fatiche, si sente muggire
nelle note e l'amico li guida a fatica,
lui che ha mani indurite a picchiare una mazza,
a menare una pialla, a strapparsi la vita.


Li ebbe un tempo i compagni e non ha che trent' anni.
Fu di quelli di dopo la guerra, cresciuti alla fame.
Venne anch'egli a Torino, cercando una vita,
e trovò le ingiustizie.

Imparò a lavorare nelle fabbriche senza un sorriso.
Imparò a misurare  sulla propria fatica la fame degli altri,
e trovò dappertutto ingiustizie. Tentò darsi pace
camminando, assonnato, le vie interminabili
nella notte, ma vide soltanto a migliaia i lampioni
lucidissimi, su iniquità: donne rauche, ubriachi,
traballanti fantocci sperduti. Era giunto a Torino
un inverno, tra lampi di fabbriche e scorie di fumo;
e sapeva cos'era lavoro. Accettava il lavoro
come un duro destino dell'uomo. Ma tutti gli uomini
lo accettassero e al mondo ci fosse giustizia.
Ma si fece i compagni. Soffriva le lunghe parole
e dovette ascoltarne, aspettando la fine.
Se li fece i compagni. Ogni casa ne aveva famiglie.
La città ne era tutta accerchiata. E la faccia del mondo
ne era tutta coperta.. Sentivano in sé
tanta disperazione da vincere il mondo.

Suona secco stasera, malgrado la banda
che ha istruito a uno a uno. Non bada al frastuono
della pioggia e alla luce. La faccia severa
fissa attenta un dolore, mordendo il clarino.
Gli ho veduto questi occhi una sera, che soli,
col fratello, più triste di lui di dieci anni ,
vegliavamo a una luce mancante. Il fratello studiava
su un inutile tornio costrutto da lui.
E il mio povero amico accusava il destino
che li tiene inchiodati alla pialla e alla mazza
a nutrire due vecchi, non chiesti.

D'un tratto gridò
che non era il destino se il mondo soffriva,
se la luce del sole strappava bestemmie:
era l'uomo, colpevole. Almeno potercene andare
far la libera fame, rispondere no.
a una vita che adopera amore e pietà,
la famiglia, il pezzetto di terra, a legarci le mani.

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In questa poesia, scritta nel settembre del 1932, dunque in piena epoca fascista. Cesare Pavese narratore e poeta piemontese ci presenta con linguaggio semplice e immediato la figura di un suo compaesano già operaio a Torino inchiodato ora dalle esigenze familiari ad un lavoro insoddisfacente e mal pagato; ora che con il fascismo non è più possibile neppure la solidarietà di classe, il giovane trova la sua unica vera possibilità di espressione nel suonare il clarino nella banda. 
Nella figura del compagno il poeta rappresenta simbolicamente tutti i lavoratori della sua terra, sfruttati, miserabile sangue fiaccato estenuato dalle fatiche e insieme le esigenze di una maggiore giustizia sociale la cui possibilità il fascismo aveva del tutto cancellata.

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