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Qualche strofetta
di Tony Basili  

Or racconto con qualche strofetta
Di quando in un prato ero triste e solo
E stavo pensando di tornare in fretta
Verso lo spiazzo ove era il mio stuolo,
Che dal cielo in un raggiare sì diletto
Donna divina giunse come in volo
Che si distese tra i fior con tale grazia
Che a dire ancor la bocca non si sazia.

M’aiuti però a dir da quale regno
Venisse lei che m’incendiò d’amore
Appena co’gli occhi mi fece segno
Ch’era giunta per me e che il mio sopore
Avrebbe sciolto, ché le parea degno
Che non patissi più senza l’amore;
Sicché mi stetti e smessa la faretra
Per lei tentai le corde della cetra.

Vagheggia il borgo il dilettoso monte
Che d’una parte e l’altra un lago vede
E dal cui sommo tutto l’orizzonte
Appare intorno, ampio che non si crede,
E con occhio attento, verso sud a fronte,
Scorger la Cupola puoi, ove ogni piede
Giunge una volta almeno nella vita,
Come pegno d’una buona sortita.

Di dietro, lo sguardo all’altre sponde
Molte montagne s’ergon d’ arbuscelli
Sulle pendici son tra folte fronde
Uno stormire di svariati augelli
Che volano qua e là tra quelle sponde
Delle acque e tra i tanti freschi ruscelli,
Ove appena giunto, ti si apre il cuore
E se c’è una ninfa ti coglie Amore.

Né il piacere ti viene men d’inverno
Che è ancor più bello se la neve imbianca
Tutta intorno, tal che par l’eterno
Sia per te il dono, ché mai ti stanca
Come pur al mar, con cetra o quaderno,
Nutrir puoi il cor di quel che ti manca,
Ma appena vidi i suoi dorati crini,
Gli altri piaceri mi parvero meschini.

Era già tardi e pensai allo stuolo
Dei cari amici, ché m’ero accordato
Di ritrovarmi, ma non ero più solo,
ché il diletto m’avea sì inebriato,
ch’ella s’era stesa sul prato e in volo
volteggiar vedeo, sul suo riso beato,
le farfalle e alla veste bianca un lembo
sciolse e fluirono tanti fior in grembo.

“O qual tu sia, vergine regina,
o ninfa o dea, così tu mi appari
che vieni aleggiando e ti posi vicina
con i diletti che mi son sì cari;
offrendo al cuor la buona medicina
che ruberei da tutti i santi altari,
una grazia del ciel, per me una stella
sei, ché non vidi mai donna più bella.

Lei si volse al fluir delle mie parole
Ed il suo sguardo godei d’un vago riso
Che spianò i monti e mosse pure il sole
Che mi tradusse veloce in paradiso
Poi dalla sua bocca di rosa le parole
Usciro che in cor avrei portato inciso,
Piene di grazia, o bella, o mia sirena,
Mi volse un cenno e n’ho la vista piena.

Io non son quel che tu t’auguri che sia,
Ché non son di qui, ma di lungi vengo
E ciò che vedi sappi che non è mia
Ma d’un signor i cui ardori spengo
E ne son felice e quando per la via
Accendo i cuor, ti dico io non svengo,
ché son contenta della mia sorte
e serena e sicura vado senza scorte.

Spesso giungo così tutta soletta,
a piedi o in carrozza, e qui mi porto,
ché dà quiete questo luogo e mi diletta
e alcuno poi, come te appena scorto,
mai ho visto d’intorno, perciò m’alletta,
ed ora con te, non penso ch’un torto
vorrai farmi, che mi pari dabbene,
e potrò così andar via senza pene.

Questo mi disse e lucerono i suoi denti
Come un lampo che rifulse intorno
E movendosi pe’l prato a passi lenti
Parea mover una gran luce attorno,
E mi sentia il cor già fare lamenti
E fluir zefiro intanto per tal scorno
Che mi si sbiancò il viso e come adesso
A bocca aperta mi lasciò assai oppresso.

Sabaudia 18.9. 21

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