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Il lavoro e la Costituzione

Oggi, ormai, non è più un problema se svolgere una professione più nobile o meno nobile. Lavorare appare per tutti un'esigenza e insieme un'aspirazione.
Il problema, piuttosto, è trovare lavoro, soprattutto un lavoro adeguato alle proprie
possibilità e alle proprie inclinazioni.

Il diritto ad avere un lavoro è sancito come fondamentale dalla Costituzione, che
è la legge cardine della nostra società.
Purtroppo, però, i pricìpi fissati dalla nostra Costituzione non hanno trovato finora piena attuazione nella realtà del Paese.

L'art. 1 afferma che «l'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro».
Questo significa che a fondamento della nuova società italiana uscita dalle lotte
antifasciste e dai disastri della seconda guerra mondiale si pongono due valori
essenziali: la democrazia e il lavoro.

In questa maniera, la democrazia si rispecchia nel lavoro, e questo nella democrazia.
Solo così essa trova pieno riscontro e conferma nella realtà, e il lavoro può essere
rispettato nella sua natura e nelle sue finalità.
L'art. 4, poi, è espressamente dedicato al lavoro. Esso recita: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Occorre fermarsi sulle due parole «diritto» e «dovere», che ricorrono in questo articolo.
 Il lavoro è definito la prima volta «diritto», la seconda volta «dovere».

In realtà, il lavoro è l'una e l'altra cosa insieme. È un diritto, perché ogni individuo, senza distinzione di razza, di sesso, di opinioni religiose e politiche, deve avere l'opportunità di impegnare le sue energie, di esercitare le proprie scelte, di sviluppare le proprie aspirazioni ad affermare la sua personalità attraverso il lavoro.
Solo il lavoro, infatti, ha consentito all'umanità e agli individui di progredire e di affermarsi.
La civiltà oggi è quello che è, grazie alle applicazioni e allo svolgimento del lavoro nel mondo.

Il lavoro, però, è anche un dovere. A nessuno, infatti, può essere riconosciuto il diritto di vivere brutalmente e parassitariamente a spese ed in margine del lavoro altrui.
Nessuno può starsene a «grattarsi la pancia» oziosamente, sterilmente, offensivamente per gli altri e ai danni degli altri.
Nella collettività, ognuno deve svolgere un suo ruolo, secondo le proprie possibilità
 e le proprie attitudini.
Ma non si devono consentire né sopraffazioni, né sfruttamenti, né pezzenterie.
Tutti, invece, devono dare il loro apporto allo sviluppo, al benessere, alla difesa, alla crescita del proprio gruppo o dei propri gruppi di appartenenza.

Ma nell'art. 4 non vanno considerati soltanto questi aspetti. Esso dice anche che la Repubblica «promuove le condizioni che rendano effettivo» il diritto al lavoro.

Ma questa è solo un'affermazione di principio, come sanno benissimo gli inoccupati,
i disoccupati e i sottoccupati, che sono tanti, soprattutto nelle fasce giovanili.
La loro lotta per cercare un impiego e per sottrarsi alle umiliazioni e alla miserie
è esperienza quotidiana.
Intanto, lo Stato è impegnato, con l'art. 4, a sradicare la disoccupazione e il malessere sociale connesso, che si presentano nettissimi in alcune aree geografiche del nostro Paese.
L'impegno della Costituzione a fare in modo che la società italiana si trasformi in senso democratico e in difesa dei lavoratori è dichiarato, oltre che nell'art. 4, anche negli articoli 35-47, soprattutto negli articoli 35, 36 e 37, dedicati appunto al mondo del lavoro.

Secondo l'art. 35, la Repubblica assume la tutela del lavoro «in tutte le sue forme e applicazioni». Inoltre, «cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori».
Protegge i lavoratori italiani anche all'estero.
Così, lo Stato è obbligato ad assumere vaste iniziative a favore dei lavoratori all'interno del Paese ed anche fuori, secondo accordi e intese di carattere internazionale.
Grande importanza poi, ha l'art. 36, in particolare il suo inizio, dove si afferma: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa».

Neppure questo articolo, come gli articoli 1,4 e 5 trovano, purtroppo, pratica applicazione nella realtà economica e sociale del nostro Paese.
Infatti, se esso fosse rispettato, non ci sarebbero fenomeni massicci di malessere, di sottoccupazione e di sfruttamento sul posto di lavoro.
II Questa norma, però non ha soltanto carattere ideale e morale.
Essa trova riscontro sul piano delle leggi e della loro attuazione. In fatti, i tribunali, che s'interessano di cause del lavoro, procedono abbastanza severamente a punire abusi commessi da parte di datore di lavoro nei confronti dei lavoratori sfruttati.

A tutela dei diritti dei lavoratori e in difesa della loro emancipazione sono altre disposizioni degli articoli 36 e 37, come quelle riguardanti la durata della giornata lavorativa, che è «stabilita dalla legge», il diritto al riposo settimanale e alle ferie retribuite, il limite minimo di età per l'assunzione nel lavoro.
Di grande importanza è il comma 1 dell'Art. 37. Esso stabilisce: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.
Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione».

Si tutela, così, non solo il diritto della lavoratrice madre, che in seguito è stato disciplinato dalla Legge n. 860 del 26 agosto 1950 e successive modifiche, ma si afferma in assoluto la parità dell'uomo e della donna sul posto di lavoro.
In questo campo, sotto il fascismo, non si riconosceva parità fra i due sessi, né si incoraggiava l'inserimento della donna nel mondo del lavoro.

Anzi, si adottavano misure discriminatorie ai danni dell'emancipazione femminile.
Ad esempio, alle ragazze che continuavano gli studi secondari, oltre quelli dell'obbligo delle elementari, si faceva pagare una particolare tassa, che non si imponeva invece ai ragazzi.
Bisogna, purtroppo, anche riconoscere che le disposizioni dell'art.37 non sono state pienamente attuate dall'Italia repubblicana.

Ma anche se molta strada resta ancora da percorrere nel campo dell'emancipazione femminile e della piena uguaglianza dei sessi nel mondo del lavoro, siamo già abbastanza lontani dalle situazioni del periodo fascista, che penalizzavano fortemente la donna.

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