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fiori di Tucceri
 Un'esistenza stroncata
di Piero Tucceri

In paese lo conoscevano tutti. Le vicende personali di Pino erano infatti a dir poco singolari. Lui era nato da genitori non proprio dotati di una ordinaria intelligenza, i quali si erano potuti unire in matrimonio in quanto inseriti in un contesto sociale caratterizzato da un clima di invalsa lassità, peculiare peraltro delle comunità economicamente strutturate e, come tali, culturalmente e socialmente più arretrate. Altrimenti, qualcuno avrebbe provveduto a ostacolare con appropriati interventi l’unione, o almeno la procreazione, di due persone mentalmente anormali. L’inevitabile conseguenza di quell’abbrutimento sociale, aveva portato al mondo quel ragazzo, il quale ricapitolava inevitabilmente le lacune genetiche stratificate nei suoi genitori.
Fino a quando visse in famiglia, l’esistenza di Pino si svolse nel rispetto di modalità tutto sommato accettabili. I suoi genitori, pur nella loro evidente instabilità intellettiva, riuscirono a tutelarlo piuttosto adeguatamente. Durante quegli anni, il ragazzo trovò anche un lavoro come manovale nell'edilizia. Così che, nonostante fosse sin troppo spesso preso in giro dalla gente del paese, la sua vita trascorse abbastanza normalmente. Questo, nonostante l’intera parentela fingesse persino di non conoscerlo. Perché si vergognava di lui e dei suoi genitori. Nonostante neppure essa brillasse per intelligenza. In fondo, l’espressione genetica di discendenza veniva comunque condivisa. Di sicuro c’era il fatto che i suoi parenti erano stati assai più fortunati di lui e della sua famiglia: essendo infatti riusciti a sistemarsi nella pubblica amministrazione, grazie a un efficace giro di raccomandazioni, essi apparivano agli occhi della gente, vistosamente offuscata da travianti moduli sociali, diversi, anzi “più normali”, di questi ultimi. Offrendo quella virtuale facciata, essi si proponevano in qualche modo migliori e perciò meritevoli di una maggiore considerazione sociale rispetto a Pino e ai suoi familiari, i quali riuscivano a malapena a racimolare il minimo per assicurarsi un dignitoso sostentamento, prestando la loro manodopera nell’agricoltura e nell’edilizia.
Dopo la morte dei genitori, ricorsa peraltro nel volgere di poco tempo, Pino si ritrovò solo. Di colpo, si ritrovò solo. Solo con sé stesso e con la sua onerosa penalizzazione sociale. Restò soprattutto solo a fronteggiare le gratuite cattiverie rivoltegli da un contesto sociale senz’altro economicamente prospero, ma sicuramente proprio per questo estremamente arido di propensione verso i più bisognosi. Di una società, quindi, assai imbarbarita. Così Pino dovette affrontare nella più desolante solitudine le insidie della vita. Prima le aveva vissute indirettamente, grazie alla rassicurante presenza dei suoi genitori. Adesso però tutto era cambiato. Adesso tutto si era terribilmente complicato. Si ritrovava solo, preso in giro e sfruttato da tutti.
Trascorse soltanto qualche anno dalla perdita dei suoi genitori, quando Pino si ammalò. Senza poter contare sul sostegno di qualcuno e sentendosi ormai debole, il ragazzo si recò in ospedale, dove venne prontamente ricoverato e sottoposto agli accertamenti clinici del caso. Dopo qualche giorno, fu formulata la diagnosi. Una diagnosi drammatica! Una diagnosi che non lasciava scampo! Pino aveva un cancro all’intestino e doveva essere operato con la massima urgenza per scongiurare possibili complicanze ostruttive.
Il ragazzo dovette affrontare nella più penosa solitudine quel difficile momento. Non poteva contare su nessuno. Né sotto il profilo materiale, né, ancor più, sotto quello psicologico. Vigliaccamente, nessuno lo conosceva! Per fortuna, però, Pino riuscì a superare anche quell’ardua circostanza.
Dimesso dall’ospedale, dovette abituarsi a un diverso modulo di vita. Per fortuna, il personale sanitario, almeno quello!, lo preparò efficacemente al nuovo stile di vita. Pino sembrò adattarsi agevolmente alla nuova situazione determinatasi. Così come si sottoponeva regolarmente ai controlli medici. Tutto sembrava procedere regolarmente. Solo che, a quel punto, il ragazzo cedette. Cominciò a soffrire terribilmente di solitudine. Ora che gli era precluso anche lavorare, le sue giornate trascorrevano nella più opprimente solitudine Trascorrevano così i suoi giorni. Compresi quelli che per gli altri, per i “normali”, erano festivi.
Nonostante tutto, Pino cercò ancora di stabilire un contatto con i suoi zii e cugini. Ma quelli lo evitavano ancor più di prima. Del resto, non avendolo voluto sentire quando stava ancora in salute, figuriamoci se potevano farlo dopo che era malato! Il poveretto cercò allora di percorrere altre strade. Si rivolse al sindaco del paese e al parroco. Inutilmente! Anch’essi lo ignorarono!
Con il passare del tempo, la situazione cominciò a pesargli sempre più. Divennero così sempre più frequenti le occasioni nelle quali lo si incontrava vagabondare lungo le strade del paese. Ed erano ancora più frequenti le volte che lo si incontrava piangente mentre invocava l’aiuto di sua madre. “Mamma, vieni a prendermi!”, ripeteva ad alta voce, in preda alla più opprimente disperazione. Come risposta, in paese lo tennero ancor più distante. Addirittura, c’era chi si divertiva a prenderlo in giro per quelle manifestazioni di profonda disperazione! Perciò lo si vedeva girare come un ubriaco lungo i viali del locale cimitero, chiamando sua madre con voce straziata.
Inutilmente qualcuno sollecitò l’intervento del sindaco, del parroco, delle fantomatiche associazioni umanitarie e delle forze dell’ordine. A parole, tutti ritenevano doveroso aiutare quel ragazzo, ma in concreto non fecero nulla. Ci fu persino il caso di qualche sciacallo che diffuse la voce secondo la quale l’interessamento di quelle persone fosse motivato dall’intento di appropriarsi della sua casa e di qualche presunto risparmio di Pino. Fu così che i buoni propositi dimostrati da qualcuno venissero stroncati dal cinismo manifestato da una accozzaglia arida ed egoista. In un’epoca caratterizzata dalla apparente propensione verso il prossimo sofferente, in effetti nessuno faceva qualcosa di utile di fronte al caso concreto. Quando si trattava di esibirsi in futili convegni e sfilate, ostentando i relativi stendardi, tutti erano presenti e apparentemente vocati verso le persone sofferenti. Poi, però, nel momento operativo, tutti si defilavano. Rispettando un ormai sempre più consolidato modulo sociale basato sull’apparenza e sull’ipocrisia: vale a dire, sulla stimmata della società odierna, alimentata dal buonismo e quindi dal cinismo!
Nel giro di qualche mese, la situazione precipitò. Una mattina, Pino incontrò lungo la strada principale del paese un suo cugino. In preda a un momento di particolare sconforto, lui che era sempre stato buono e mite, lo aggredì con un bastone raccolto per strada. Tuttavia non lo colpì per arrecargli danno. Non lo colpì sulla testa o sul tronco: lo colpì alle gambe. Alcuni passanti intervennero e lo immobilizzarono. Allora, e soltanto allora!, intervennero tutti. Soprattutto il sindaco e i carabinieri, che si preoccuparono di condurlo presso il più vicino presidio psichiatrico, mentre suo cugino fu accompagnato al pronto soccorso per le cure del caso.
Quel colpo di testa, tutt’altro che inatteso in una persona ridotta alla disperazione, compromise irrimediabilmente l’esistenza di Pino. Dal momento che suo cugino, il quale avrebbe meritato ben altro data la sua vergognosa indifferenza, se la cavò con qualche livido, mentre lui si ritrovò davanti al magistrato competente. Competente di che cosa, non si sa, visto che fino ad allora, pur essendo stato messo al corrente della situazione, non aveva adottato nessun provvedimento volto a contenere il precipitare degli eventi. Continuando su quella stessa falsariga, si limitò a predisporne l’accompagnamento coatto in un apposito istituto. Non considerando che, strappandolo violentemente dal suo ambiente, gli stavano preparando la fine.
Nel centro presso il quale fu condotto, Pino trascorreva le sue giornate immerso nella più desolante solitudine e disperazione. Non riusciva ad adattarsi a un ambiente che sentiva estraneo. Così se ne stava rinchiuso nella sua stanzetta, con la mente rivolta costantemente al proprio passato e rimpiangendo soprattutto di non potersi più recare a pregare sulla tomba dei suoi genitori. Nel giro di poco tempo, la sua salute peggiorò notevolmente. La sua malattia, che sembrava aver superato, tornò di nuovo a corroderlo. Le metastasi ebbero la meglio sul suo ormai indebolito organismo. Nel giro di un paio di mesi, Pino morì. Morì così come era vissuto: nella più desolante solitudine! Una mattina, il personale addetto, lo trovò, ormai cadavere, dentro il suo lettino. Sicuramente, il ragazzo si era spento nella disperazione di non poter più rivedere i luoghi nei quali era vissuto e ancor più per non poter più tornare sulla tomba dei suoi cari.
Anche quando in paese si celebrò il suo funerale, l'atmosfera fu la stessa. Su tutto, gravava un clima di solitudine, di desolazione e di abbandono. Ad attendere l'arrivo del feretro, non c'era nessuno. Nessuna delle persone che lo avevano conosciuto, andò a dargli l'ultimo saluto.
Dopo la celebrazione del rito religioso, Pino venne condotto nel locale cimitero dove, finalmente, avrebbe potuto riposare per sempre accanto ai suoi genitori. Quando il feretro uscì dalla chiesa qualcuno però c'era: c'era un cane, abbandonato tempo prima da qualche criminale, che gli aveva fatto compagnia negli ultimi tempi. Un cane che viveva randagio come lui. Qualcuno osservò l'ultimo passaggio di quel ragazzo da dietro i vetri della finestra di casa. Quasi stesse passando la salma di un criminale. Ma, tutto sommato, fu meglio così. Gli avevano risparmiato l'ultima ipocrisia. Adesso Pino era finalmente tornato, e questa volta definitivamente, nel suo luogo di origine e dai suoi genitori: gli unici che lo avevano amato veramente. Adesso era tornato a stare con loro. Per l'eternità. Lontano dall'umana ipocrisia e cattiveria e consolato dall'affetto di un cane con il quale aveva in parte condiviso la sua condizione di randagio.

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