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Poesia di Gabriele D'Annunzio - Il peccato di Maggio
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Poesia di Gabriele D'Annunzio 
Il peccato di Maggio 

Or così fu; pe ’l bosco andando. Era sottile
la mia compagna e bionda. Su la nuca infantile
due ciocche avean quegli ignei luccicori vermigli
che dà a le chiome antiche il Tadema. Tra i cigli
lunghi gli occhi avean l’iride verde risfavillante
di mille atomi d’oro. Da l’alta erba odorante
ella sorgeva eretta come un vivente stelo.
Andavamo pe ’l bosco, soli. Grandi su ’l cielo
gli alberi parean fusi nel bronzo; ma di sotto
a le scorze, passando, udivamo interrotto
ascendere il pugnace fremito de le linfe
e il romper de le gemme anche udivamo.
 O ninfe
amadriadi, occulte ne le estreme radici,
non voi dunque cantaste su ’l passaggio gli auspìci
a l’amore? 

Io guardava Yella, muto. Le acerbe
risa di lei, tra ’l vasto fluttuare de l’erbe
al vento, sotto i dòmi alti de la verdura,
squillavano. Ed al riso le si schiudea la pura
chiostra de i denti, al riso l’arco de la gengiva
quasi ferinamente rosso le si scopriva.
Io guardava aspirando voluttuosamente;
poi che il corpo di lei esalava un ardente
profumo, come un frutto maturo. Una serena
anima era nel bosco sparsa; ma in ogni vena
a me correva l’aspro vin de la giovinezza…
Oh freschissime risa tintinnanti a la brezza
del vespro, salutanti dal bel grembo selvaggio
di un bosco il morituro sol di calendimaggio!

II
Soli andavamo. — Ah, senti, senti i merli fischiare
ella disse, fermandosi. Dal ciel crepuscolare
discendeva su i rami la nebbia violetta.
Senti, senti! — D’un tratto, dietro l’ultima vetta
scomparve, in fondo al lago de le nuvole, il sole.
Allora fu una molle cascata di viole
ne l’aria. Un solco d’oro s’apriva basso; rotto
il bagliore su i culmini indugiava; di sotto
a i culmini illustrati, già ne l’assopimento
grave i tronchi annegavano. Lente nel vapor lento
de la sera le cose perdevano le forme.
Le viole cadevano; era una pioggia enorme.
Tutto il bosco, un istante, parve a la mia vista
una maravigliosa foresta di ametista
che risplendeva; e Yella parve la maga. Eretta
fra l’erba, d’un’aerea tunica violetta
circonfusa, a quell’ultima luce crepuscolare
ella diede l’addio con un alto cantare.
Ella cantava ancóra al mio fianco. Una ciocca
de’ suoi capelli, a tratti, mi sfiorava la bocca;
ed il profumo, l’anima di quella cosa viva,
m’irritava le nari avide, mi saliva
pe ’l capo. Io le guardai la gola palpitante
al ritmo de le note: come bianca!
le piante
curve al passaggio udivano?
Io le guardai la gola.
Or vanivan d’intorno le nebbie di viola
ne l’aria; una penombra dolce velava l’aria,
e su da la foresta profonda e solitaria
sorgevano le voci de le cose, gli odori
de le cose. Pareva, non so, come dai fiori
da le foglie da l’erbe un sogno vegetale
salisse e si spandesse, grande e soave; quale,
non so, da le dormenti acque a l’alba un vapore.
Io respirava un sogno di foresta in amore.
Ella cantava; e il puro canto rendeva pure
tutte le cose.

III
Tacque; poi che su le pianure
a l'orizzonte il disco de 'l plenilunio sorse,
improvviso. Pe 'l bosco addormentato corse
allora un lungo brivido. Il benigno rossore
lentamente vinceva la notte; da 'l pallore
de 'l cielo il disco enorme brillò, come un divino
scudo, classicamente.

O, Vergilio latino,
o tu che da la curva lira d'avorio i canti
sacri derivi, m'odi! Se mai le riluttanti
ciglia a notte domai su 'l tuo poema e i dolci
sonni immolai su l'ara, mite Vergilio, molci
or le mie corde e l'ali concedimi a 'l linguaggio,
dà gl'inni a 'l plenilunio reo di calendimaggio!

IV
Quando il grande letargo del bosco ne i chiarori
lunari si sommerse, crescevano li odori
su dal bosco profondo in marea fresca; e il vento
carico de li odori per quel biancheggiamento
mettea soffi, recando come lunghi bramiti
di cervi in lontananza. Or le cerve da i miti
occhi umani ascoltavano ebre di desiderio
que' richiami d'amore, trepide ne 'l misterio
de l'ombre vigilando se non già tra 'l fogliame
d'in torno luccicassero li occhi ardenti di rame
d'un amante. Passava il vento: i secolari
tronchi di quercia ergevano a li incanti lunari
le membra, come atleti che chiedessero abbracci,
ansando ed anelando, non piú paghi de i lacci
de l'edera. Parevano rettili alti in agguato
certi alberi; mettevano su 'l candore perlato
de la luna, certi alberi, come una efflorescenza
rigida di dïaspro; e ne la evanescenza
de la luna era come una selva lontana
di cupole e di aguglie, era come una strana
città che si perdeva in fughe di viventi
colonne, pe 'l vapore. Ma li odori crescenti
attossicavan l'aria; ma da quel gran letargo
vegetale esalava un respirare, un largo
respirare di belva; ma come voci rotte
di piacere animavano il bosco, ne la notte.

V
E ci fermammo. A noi su 'l capo quel fulgore
piovea placido e fresco; 68 ne la carne un languore
novo mettendo, quasi penetrasse la cute,
ammollisse le vene. Ora un disìo di acute
voluttà mi pungeva, innanzi a quella bianca
vergine inconsapevole.
Io sono tanto stanca
ella disse, piegando verso di me. - Non vuoi
tu riposare? - Aveano le sue parole, i suoi
gesti una così nova dolcezza ch'io tremai.
ne l'ime fibre 'Ìl come a una voce non mai
udita, indefinibile. E mi sentii su gli occhi
scendere un denso velo; e le caddi a' ginocchi;
e con avide mani su pe 'l suo corpo ascesi,
e tremar come un'arpa viva il suo corpo intesi.
Atterrita a que' sùbiti vibramenti d'ignote
fibre,ella con aneliti, gemiti, con immote
le pupille e convulsa la bocca, ornai perduta,
omai perduta senza scampo, ornai posseduta
da la dolce e terribile forza a cui la foresta,
era schiava in quell'ora, pendea su me..,
La testa
in dietro a .l'improvviso abbandonò. Le chiome
effuse le composero un letto ov' ella,come
per morire, si stese. Un irrigidimento,
quasi un gelo di morte, l'occupò. Lo spavento
m'invase, per un attimo, innanzi a quel candore
mortale che parea cingerla d'un orrore
mistico e da l'impuro desìo che in me sì forte
fiammeggiava difenderla per sempre. Ma fu morte
breve.Tornò la vita ne l'onda del piacere.
Chino a lei su la bocca io tutto, come a bere
da un calice, fremendo di conquista, sentivo
le punte del suo petto insorgere,al lascivo
tentar de le mie dita, quali carnosi fiori..

O bei fiori vermigli - in cui eran sapori
de' più teneri frutti che tarda su le soglie
de l'Estate ridendo l'ultimo riso coglie
la Primavera -, o fiori, o frutti dal più lene
sangue virgineo nati, nudriti da le vene
più cerule 86 che scorrano in paradisi umani,
o fiori, o frutti, ancora io mi sento su i vani
versi, al ricordo antico, impallidir la faccia!
Ed ancora le reni, come allora, mi ghiaccia
un brivido!

VI
Su i vani versi per voi fatico
ne la notte, Madonna, ad ornar questo antico
ricordo. E dal mio sangue rigermoglia l'amore
furtivamente. YelIa in fondo al vostro cuore
più non canta, o Madonna,come un dì pe 'l selvaggi,
bosco nel plenilunio reo di calendimaggio?

 Il peccato di maggio composto nel maggio 1883 e pubblicato per la prima volta sulla «Cronaca Bizantina» del 16 maggio 1883, costituiva, nell'Intermezzo di rime del 1883 e del 1884.

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