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Poesia di Boris Pasternak
Marburgo

lo sussultavo. Divampavo e mi spegnevo.
Trepidavo. Formulai allora la richiesta,
ma tardi, tremavo tutto, e fu un rifiuto.
Mi dispiacque delle sue lacrime! Ero più beato d'un santo.

Uscii in piazza. Mi si poteva ritenere
nato una seconda volta. Ogni nonnulla
aveva vita e, non considerandomi,
nel suo significato d'addio s'innalzava.

Lo schisto si arroventava e della via la fronte
era olivastra e il ciottolo guardava di traverso
il cIelo e, quale barcaIolo, il vento fendeva
i tigli. E era parvenza ogni cosa.

Ma, comunque, io fuggivo
i loro sguardi. Non rilevavo i loro saluti.
Nulla volevo sapere di ricchezze.
Ecco, mi svincolavo per non scoppiare in pianto.

L'istinto innato, vecchio-piaggiatore,
mi era insopportabile. Andava di soppiatto spalla a spalla
e pensava: «Fiamma di ragazzo. Per disgrazia
toccherà stargli dietro con tanto d'occhi».
Dai un passo, e ancora un altro» - mi ripeteva l'istinto
e saggio mi guidava, quale vecchio scolastico,
per un folto intatto, impenetrabile,
di alberi riscaldati, di lillà e passione.

 «Imparerai a dare i passi, poi a correre magari», -
 mi ripeteva e il nuovo sole allo zenit
I guardava come insegnino daccapo a camminare
I al nativo di un corpo celeste su un altro pianeta.

Tutto questo alcuni li abbagliava. Per altri
era come se fosse buio pesto.
Razzolavano i pulcini tra i ciuffi di giorgine,
I grilli e libellule ticchettavano come orologini.

Veleggiava un embrice e il meriggio guardava
i tetti, senza battere ciglio. E a Marburgo
chi fabbricava una balestra, fischiando forte,
chi tacendo si preparava alla fiera di Pentecoste.

Ingialliva, divorando le nuvole, la sabbia.
L'annuncio di tempesta luccicava con le ciglia dei cespugli.
E il cielo si aggrumava caduto
su un pezzo di amica che arresta il sangue.

In quel giorno tutta, dai pettini ai piedi,
quale attore tragico in provincia un dramma di Shakespeare,
ti portavo con me e ti sapevo a memoria,
gironzolavo per la città e ti ripassavo.

Quando ti caddi dinnanzi, abbracciati
questa nebbia, questo ghiaccio, questa superficie
(come sei bella!) -questo vortice d'afa...
Di che parli? Torna in te! Tutto è finito. Sei respinto.

Qui viveva Martin Lutero. Là i fratelli Grimm.
Tetti artigliati. Alberi. Lapidi.
E tutto questo rammenta e si protende loro.
Tutto è vivo. E tutto è pure parvenza.
No, non andrò là domani. Il rifiuto
è più assoluto dell'addio. Tutto è chiaro. Siamo pari.
La confusione della stazione non è per noi.
Che sarà di me, antiche lapidi?

Ovunque collocherà la nebbia sacchi da viaggio,
in entrambe le finestre sarà incorniciata una luna.
Come una viaggiatrice scivolerà l'angoscia per i tomi
e con un libro prenderà posto sull'ottomana.

Di che ho paura? Come grammatica
conosco l'insonnia. C'è con lei un'alleanza.
Perché, come l'arrivo di un lunatico,
la comparsa temo dei pensieri consueti?

Ecco, le notti si siedono e giocano a scacchi
con me sul parquet rischiarato dalla luna.
Profumo d'acacia e finestre spalancate
e, come testimone, la passione incanutisce in un angolo.

E il pioppo è il re. lo gioco con l'insonnia.
E la regina è l'usignolo. lo anelo all'usignolo.
E vince la notte, i pezzi si mettono da parte,
il bianco mattino nel volto riconosco.

1916, 1928

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