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Racconto di Giuseppe Fanciulli
La pace di Natale 

Fuori, la notte era nera. Stefano aveva creduto che la luna fosse già alta; invece, grosse nuvole si gonfiavano nel cielo, con un colore di perla sudicia a un lato dell'orizzonte, e poi tutto si incupiva fino alle tenebre.
La neve indurita mandava nel raggio della lanterna un biancore tramortito.

Per arrivare alla fattoria dei Codibò, bisognava attraversare tutto il villaggio e andare oltre; due chilometri almeno.
Stefano cercava di camminare abbastanza in fretta sulla neve sdrucciolevole, e ogni tanto sollevava il viso e guardava quel cielo minaccioso.
Un vento freddo cominciò a levarsi, a sbuffi.

Mario sperava che suo padre sarebbe tornato indietro.
Non aveva nessuna voglia di andare alla festa dei Codibò, e poi con loro alla Messa: gli pareva di essere in mezzo alla luce e al frastuono; le ragazze ridevano, e dentro a lui tutto piangeva.
Ma il padre batteva risolutamente gli stivali sulla neve; no, non sarebbe tornato indietro. Col vento incominciarono a volteggiare dei fiocchettini bianchi; poi i fiocchi si fecero larghi e pesanti, e nel giro del vento turbinavano; passando dinanzi alla lanterna, prendevano un roseo palpito di vita, e poi ricadevano giù, sparivano come uccelli stanchi di un volo troppo lungo.

Stefano si era fermato, e Mario approfittava della sosta per ripulire i vetri della lanterna. Per fare più presto, il padre aveva voluto girare attorno al villaggio, e ora si trovava disorientato; non sapeva se avessero oltrepassato o no le case, perchè i lumi non si vedevano affatto.
La neve rapidamente copriva i due uomini, li gonfiava come due torpidi fantocci.

Non possiamo star fermi qui - disse Stefano; - e sono sicuro che la fattoria dei Codibò non è lontana. Non vedi nulla tu e non odi dei canti?
No; Mario, come suo padre, vedeva soltanto il frullare di quegli uccelli bianchi, udiva l'inquietante fruscio del gran volo.
Andiamo ancora diritto; - aggiunse Stefano -in qualche parte arriveremo; tutto è meglio che
star fermi. Pensava al tepore della sua grande cucina, e ricordava l'augurio di Barbara: « Dio abbia pietà di te ».

Camminarono affannosamente, rompendo l'insidiosa, mobile muraglia della neve.
Il padre aveva appoggiato una mano sulla spalla del giovine; e siccome la fiamma della lanterna agonizzava tra i vetri opachi, essi erano ormai come due ciechi, erranti ai confini della terra.

All'improvviso, vicinissima, una tenue luce affiorò, e un'ombra più compatta si impose, di là dal velo danzante della neve.
Siamo arrivati! - gridò Stefano. E battè col piede contro una porta nera.
Passò un momento, e la porta si apri. I due uomini entrarono in una stanza bassa e angusta; una fanciulla bianca teneva alzata su di loro una lucerna e li guardava stupefatta.
Mario aveva gettato il mantello giù dalle spalle, ed era anche lui estatico.
La bufera - disse Stefano ancora ansimante - ci ha  spinto in casa vostra, e ci scuserete. Noi andiamo dai Codibò, non deve essere molto distante di qui.
Forse voi mi conoscete, no? Io sono il proprietario Stefano Martina.
E nemmeno voi mi siete viso nuovo...

lo sono Stella Savari - disse semplicemente la fanciulla.
E la sua mano tremava appena, reggendo la lucerna.

Al nome.. Stefano :Martina balzò indietro e urtò una seggiola, che cadde con gran rumore.
Stella! - chiamò una voce dall'altra stanza.
Signore, - mormorò la fanciulla - mio padre mi vuole.
Era alta e bionda, con grandi occhi celesti in un viso di marmo.
Quando si volse, i due uomini la seguirono.

La seconda stanza era assai più grande della prima, e un po' meglio illuminata.
Un focherello ardeva da un lato, su un camino basso; e dal lato opposto biancheggiava un letto.

Stefano si sentiva oppresso, come se il tetto della casuccia gravasse sulla sua alta testa, e ancor più disorientato, come se la neve continuasse a turbinare intorno. Mentre Mario restava immobile dietro a lui, andò verso il letto: non aveva più visto Michele Savari da anni, e certo non l'avrebbe riconosciuto cosi smunto e bianco.
L'ammalato si sollevò, e arrossendo si sforzò a sorridere.
Sei tu, Stefano Martina? - chiese con una voce un po' lontana.
Sono io, Michele; - rispose il ricco proprietario - tu non immaginavi che avrei passato la notte di Natale presso il tuo focolare.
Stella si accorse che le mani dell'ospite tremavano, e disse con premura:
Scaldatevi, signore; siete tutto bagnato.
Stefano si lasciò trarre fino alla panca del camino, e con piacere vide una fiamma alta sollevarsi. Più lontano sedeva Mario, piegato, con la faccia nascosta tra le mani. Stella s'inginocchiò e volle togliere gli stivali a Stefano Martina; aveva spalle larghe eppure delicate, e braccia robuste; poi offrl una coperta, un paio di pantofole, e mise a scaldare l'acqua per preparare un grog.
Non abbiamo nulla in casa, - disse - appena un goccio di acquavite, che vorrete gradire, signore.,
Tutto era povero li intorno; ma Stella si moveva come una principessa; e quando ebbe finito i preparativi, tornò presso a suo padre.
Stefano si lasciava invadere dal buon tepore. Però, non poteva fare a meno di sentire su di sè lo sguardo di Michele Savari, e ne provava una confusa pena.
Abbiamo passato più di un Natale al medesimo focolare, - disse la lenta voce di Michele - fino dal tempo di tua madre Elisabetta.
Ricordi come, alla mezzanotte precisa, apriva l'uscio della sala, e ci diceva: « Via, potete avere anche voi la vostra parte... »?

Pareva che, come nel vecchio tempo, quell'uscio si aprisse, e rivelasse la sala con le mense imbandite, fra lo scintillio delle candele.
Riprendeva la voce: - lo sono stato troppo avido, Stefano, nell'afferrare la mia parte, e tu sei stato saggio.
Si, Stefano Martina aveva sempre creduto di essere stato molto saggio: ma ora ne dubitava. Aveva egli mai frenato, consigliato l'amico di infanzia, che con spensierata furia andava incontro alla vita?
Non aveva, invece, goduto di ogni suo passo falso, e anzi non aveva approfittato di quegli errori, glorioso nel considerare l'altro sempre più in basso e se stesso sempre più in alto?
Rivedeva nettamente sua madre, che in qualche sogno gli diceva corrucciata:
« N o, Stefano, tu non sei stato il più saggio ». Sua madre Elisabetta voleva molto bene a Michele Savari, un tempo, ed egli ne era geloso; in seguito non aveva saputo essere il più saggio, col suo orgoglioso cuore, e la madre certamente se ne era accorta di lassù, altrimenti non avrebbe avuto quella faccia scura.

Stefano Martina si riscosse; quei pensieri assurdi lo assilavano perchè non stava bene. Volgendosi, vide che Stella aveva passato un braccio sulle spalle di Michele e sorrideva.

Eppure, Stefano, - riprese la voce dell'ammalato un po' più alta - io non ho perduto tutto, perchè questa figliuola non mi condanna; e qualche volta canta per me, che non posso più cantare.
Stella sorrideva ancora, e la sua bella faccia si tingeva di rosa, come il giglio nelle prime luci dell'alba.
« Vedi - diceva a se stesso Stefano Martina; - vive perchè la figliuola gli dona un po' della sua vita. - E guardò Mario, immobile e muto accosto alla parete. « Lui non ti aiuterebbe a vivere, - continuò il pensiero di Stefano - perchè sempre tu l'hai oppresso. Aspetta, anzi, la tua morte come una liberazione.
Non era nemmeno sicuro di arrivare fino ai novantadue anni di suo padre.
La morte è sempre vicina. L'aveva sentita, poco prima, quando gli aveva posato la mano fredda sul cuore, e poi quando si era avvicinata frusciando insidiosa, tra il palpitare della neve.
Era già vecchio, molto vecchio. E certamente stava male, molto male, se così ardentemente desiderava che Mario si alzasse e venisse a posare un braccio sulle sue spalle curve.

Difatti, all'improvviso Mario si alzò. Veniva ancor di lontano un confuso rumore di voci e il gemito acuto di una fisarmonica.
Le voci si avvicinano: canti e risate, grida gioiose lanciate al di sopra degli asmatici accordi.

Anche Stefano era in piedi e lentamente si avviava verso l'altra stanza.
Apri la porta: non nevicava più; il cielo si era schiarato, e il languido pallore della luna si adagiava sulla distesa nevata si volse per vedere chi arrivava di laggiù tra uno sfavillare di luci, e i suoi occhi scoprirono Barbara, che era li seduta su un cesto, di fianco al limitare.

Con immensa meraviglia si accorse di non essere in collera.
Anzi, una sua tranquilla voce disse: - Sono quelli dei Codibò che passano di qui.
Venivano, infatti, fra il dondolare delle lanterne colorate le figure nere degli uomini e quelle più chiare delle donne, file di ragazze si tenevano a braccetto, e cantavano con le facce un po' riverse, gli occhi perduti nel cielo rasserenato.
La fisarmonica, ora nasale e ora stridula, svolgeva la sua nenia, come un lungo nastro giallo e rosso su quel bianco compatto.
La turba chiassona arrivò davanti alla casuccia, e qualcuno riconobbe Stefano Martina sulla porta. Vi fu qualche richiamo e tutta la schiera oscillò, si fermò nella colorita luce delle lanterne. Gregorio Codibò in persona disse forte:
Stefano Martina, ti abbiamo aspettato; e che cosa fai qui?
Tacevano quasi tutti, e anche la fisarmonica aveva inabissato il suo canto nella comune curiosità.
Il ricco proprietario Stefano Martina appariva. grandissimo di contro alla casipola ruinosa. Con un colpo di spalla avrebbe potuto gettar giù quei muri imputriditi e spazzar via tutto, senza curarsi del viso che mostrerebbe, di lassù, sua madre Elisabetta.
Ma in quella notte di Natale non poteva cessare di pensare a lei. Perciò rispose molto tranquillamente:
Sono qui per dividere un dono tra me e il mio ospite, sono venuto a chiedere in isposa per mio figlio Stella Savari.
Lo stupore, dinanzi alla casuccia, era muto come la neve.
Allora Michele Martina si volse e vide dietro a sè, come pensav.a, Stella e Mario, vicini, che si guardavano. Unì le loro mani e poi dolcemente li spinse nel cerchio della luce: belli come è il ramo del pesco quando infiora il suo annunzio di primavera.

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