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Racconto di Piero Tucceri
Il terrore della sofferenza

Fino a non molto tempo fa, dalle mie parti, sebbene ritenga che sia stato così un po' ovunque, molte famiglie allevavano il maiale per ucciderlo poi nel periodo natalizio nell'intento di integrare il proprio approvvigionamento alimentare. Allora, per le vie del paese, si udivano frequentemente i disperati strilli delle povere bestie brutalmente immolate sull'ara dell'umano egoismo. Si trattava di cruente esecuzioni sedimentatesi nel tempo come normali, se non addirittura necessarie, celebrazioni della tradizione popolare, le quali venivano proposte a noi bambini come collettivi momenti ludici.

I miei genitori erano fermamente contrari a farmi assistere a quei riprovevoli spettacoli. Ne riaffermavano continuamente l'improponibilità ai bambini della mia età. Mia madre in particolare, non si stancava di ripetermi di non cedere alle insistenze degli amici quando si lasciavano coinvolgere in quelle orge collettive.

Un giorno, però, fui costretto a disobbedirle. Tra i miei compagni di giochi si era consolidata una sorta di gerarchia che eleggeva a più coraggioso del gruppo colui che si fosse dimostrato imperturbabile in simili circostanze. Si trattava di una autentica prova di coraggio alla quale non era agevole sottrarsi. Quel che veniva richiesto, era assistere impassibilmente allo sgozzamento dei maiali. In quel modo, si guadagnava la massima considerazione degli altri e la permanenza nella comitiva.

Fino ad allora ero riuscito in qualche modo a sottrarmi a una così ardua prova. Ma, quel giorno di dicembre, non fu possibile seguitarlo a fare, perché la sfida provenne proprio da colui che la circostanza accreditava maggiormente nel gruppo. Formulò la sua richiesta fissandomi negli occhi. Capii subito che quello rappresentava il momento decisivo per la mia futura appartenenza alla comitiva. Contro voglia, raccolsi la sfida. Incamminandoci, mi disse che l'esecuzione sarebbe avvenuta lì vicino, ad appena un centinaio di metri da casa mia.

Giunti nel luogo indicato, scorsi sul lato sinistro della strada il tino rovesciato che avrebbe funto da patibolo. Nel frattempo, arrivavano altre persone. Venivano per godersi lo spettacolo. Avevano tutte l'aria particolarmente eccitata, mentre nel mio intimo prorompeva sempre più distintamente un profondo senso di disagio, tanto da sentire il cuore palpitare fortemente.

Poco dopo, da una vicina stalla, fecero uscire il condannato. L'animale appariva visibilmente impaurito e confuso a causa degli schiamazzi dei presenti. A un certo punto si fermò. Non capiva cosa stava succedendo. Ma i suoi aguzzini, con gesti brutali e aiutandosi con la fune che uno di essi gli aveva nel frattempo legata a una delle zampe anteriori, lo costrinsero a riprendere il cammino verso il tino rovesciato. Appena gli giunse accanto, all'improvviso quattro o cinque energumeni gli furono addosso. Il maiale cominciò a strillare disperatamente e a dimenarsi nel tentativo di liberarsi dalla mortale presa. Ma quelli ebbero subito la meglio nei suoi confronti. Con forza lo tennero fermo sul tino, coricandolo sul fianco destro. Contemporaneamente, un altro degli aguzzini gli conficcò in gola un acuminato coltellaccio. Assistendo a quella scena, rimasi atterrito. Non avrei mai immaginato di dover assistere a tanta inutile violenza. A impressionarmi maggiormente erano le disperate grida della bestia, che mi riecheggiavano nella testa e nel petto, e il sangue che sgorgava copioso dalla sua gola squarciata.

Commosso dalle inutili sofferenze inferte al povero animale, mi spostai di lato. Volevo guardarlo nel volto. Volevo coglierne lo sguardo. Perché a quel punto non avevo più dubbi: era lui il vero animale, cioè l'essere dotato di anima, e non i suoi spietati carnefici. Per qualche attimo i nostri sguardi si incrociarono. Lessi la disperazione nei suoi occhi. Implorava il mio aiuto! Mi supplicava di fare qualcosa per sottrarlo a quella atroce fine. In quegli attimi percepii tutta la mia frustrazione, ritenendomi parzialmente colpevole, quale appartenente al consorzio umano, della sua situazione. Allora veramente, nonostante la pur tenera età, presi coscienza per la prima volta della mia meschina condizione umana. Intanto, la povera bestiola, stremata dalla sofferenza e dal dolore, chiuse delicatamente gli occhi. Li chiuse per sempre.

Siccome ero rimasto pietrificato di fronte a quella innocente vittima dell'umana protervia, i protagonisti della brutale bravata, nella loro profonda ignoranza e barbarie, si sentirono incentivati ad andare oltre: a completare l'opera distruttiva appena iniziata. Tolta dal tino la loro vittima, di colpo mi balzarono addosso. Proprio come avevano fatto poco prima con il maiale! Tutti insieme mi bloccarono. Quindi, sghignazzando, mi adagiarono sul tino. Come avevano fatto con il maiale, mi rovesciarono sul fianco destro. Sentendomi bloccato e in pericolo di vita, fui assalito dal terrore. Dallo stesso terrore del maiale! In quei momenti capii veramente cosa aveva potuto provare la povera bestiola. Cominciai perciò a dimenarmi con forza. Volevo liberarmi dalla loro presa. Agitandomi, la mia guancia destra poggiò sulla chiazza di sangue lasciata dal maiale sul tino. Un po' di quel sangue mi entrò anche dentro la bocca! Ne ricordo il sapore dolciastro! Ero terrorizzato e disperato! Mi rendevo conto di star morendo! Proprio come il maiale! E, mentre uno di loro mi teneva ferma la testa, un altro mi puntò sulla gola lo stesso coltellaccio ancora sporco di sangue adoperato con il maiale. Sentii la sua punta aguzza premere contro la mia carne! Poi non capii più nulla. La mia mente si confuse.

Mi ripresi più tardi. Ricordo che ero in braccio a una donna che abitava lì vicino, la quale mi si rivolgeva con tono rassicurante. Mi accarezzava e ripeteva che ormai era tutto passato. Che c'era lei e che nessuno avrebbe potuto farmi del male. Mi trattenne in casa sua, stringendomi a sé e porgendomi ogni tanto un po' d'acqua da sorseggiare. Ripeteva che così lo spavento sarebbe passato prima. Mi strinse forte a sé, confuso e tremante, fino al calar della sera, quando, vedendomi più disteso, mi consentì di tornare a casa. Lasciandomi, mi raccomandò ripetutamente di non raccontare l'accaduto ai miei genitori, nel timore che mio padre avesse potuto reagire appropriatamente alla macabra bravata consumata a danno del suo bambino.

Rientrato a casa, dovetti subìre la sgridata di mia madre che voleva sapere dove avevo trascorso l'intero pomeriggio. Provai a inventarmi una scusa, che però non sembrò convincerla. Quindi, lamentando di essere stanco per aver giocato a pallone con gli amici, me ne andai a letto.

Quella notte segnò l'inizio del mio calvario: un calvario fatto di incubi destinati a perseguitarmi per molti anni. Da allora, ogni notte mi svegliavo improvvisamente, in preda al panico, sudato e con il cuore in gola. Non ho mai ricordato cosa mi tormentasse in quei frangenti. So soltanto che in preda all'agitazione, caddi ripetutamente dal letto, procurandomi diversi traumi fisici.

I miei genitori, preoccupati per il mio stato di salute, mi sottoposero ad accurati accertamenti medici. Mio padre pretese anche una consulenza psichiatrica. Nessuno riusciva tuttavia a diagnosticare e quindi a curare i miei disturbi. Semplicemente, perché tacevo sempre quel che mi era realmente accaduto. Mi riecheggiavano continuamente nella mente le raccomandazioni della donna che mi aveva soccorso, e per questo trattenevo tutto dentro. Non volevo che mio padre potesse compromettersi affrontando i bruti che mi avevano ridotto in quelle condizioni.

La situazione si trascinò per anni. Un giorno risolsi di parlarne con mia madre. Lei ascoltò il mio racconto. Non riuscì a profferir parola! Poi mi abbracciò. Con le lacrime agli occhi, cercò di tranquillizzarmi. Quindi aggiunse che con il suo amore e con l'aiuto di un buon medico, sarei senz'altro uscito da quell'incubo. E così fu. In breve tempo, il mio sonno tornò a essere normale, anche se i segni lasciati da quel trauma non potranno mai esser rimossi completamente da nulla e da nessuno.

Adesso, se per caso passo accanto a un tino rovesciato, mi pervade un senso di profondo disagio psicofisico. Qualche anno fa, tornando a casa in macchina, mentre attraversavo un paese vicino al mio, improvvisamente mi accorsi che sul ciglio della strada stavano uccidendo un maiale. Lo stavano uccidendo proprio come quella volta! Di fronte a quella scena, la mia mente si disorientò e il corpo si irrigidì. Quasi come allora! Con fatica riuscii a fermare il mezzo poco più avanti e a sdraiarmi sul sedile. Dovettero trascorrere alcuni minuti prima di potermi riavviare verso casa, dove, una volta giunto, mi distesi sul letto per rimanervi alcune ore.

Se comunque un insegnamento posso derivarlo da questa sconvolgente esperienza, debbo ammettere che essa mi abbia fatto apprezzare il vero volto della sofferenza. Che non è quello illusorio offerto dalla angusta ed egoistica condizione umana, bensì quello capace di integrarsi in un'ottica assai più ampia, coinvolgente una intima interazione empatica ordinariamente non tanto scientemente sottovalutata, quanto sconosciuta.

 

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