Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LI
Il tuo riso appartiene a un albero dischiuso
da un fulmine, da un lampo argenteo
che cade dal cielo spezzandosi sulla cima,
dividendo in due l'albero con una sola spada.
Solo sull'alte terre di fogliame con neve
nasce un riso come il tuo, beneamante,
è il riso dell'aria scatenata sull'altura,
costumi d'araucaria, beneamata.
Cordiglierana mia, chillaneja evidente,
taglia con i coltelli del tuo riso l'ombra,
la notte, la mattina, il miele del mezzogiorno,
e saltino al cielo gli uccelli del fogliame
quando come una luce prodiga
rompe il tuo riso l'albero della vita.
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LII
Canti e a sole e cielo col tuo canto
la tua voce sgrana il cereale del giorno,
parlano i pini con la lor lingua verde:
gorgheggiano tutti gli uccelli dell'inverno.
Il mare empie le sue cantine di passi,
di campane, di catene e di gemiti,
tintinnano metalli e utensili,
suonano le ruote della carovana.
Ma solo la tua voce ascolto e sale
la tua voce con volo e precisione di freccia,
scende la tua voce con gravità di pioggia,
la tua voce sparge altissime spade,
torna la tua voce carica di viole
e quindi m'accompagna per il cielo.
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LIII
Qui stanno il pane, il vino, la tavola, la dimora:
il bisogno dell'uomo, la donna e la vita:
a questo luogo correva la pace vertiginosa,
per questa luce arse la comune bruciatura.
Onore alle tue mani che volan preparando
i bianchi risultati del canto e della cucina,
salve! L'integrità dei tuoi piedi corridori
viva! Ballerina che balli con la scopa.
Quei bruschi fiumi con acque e minacce,
quel tormentato stendardo della schiuma,
quegl'incendiari favi e scogliere
son oggi questo riposo del tuo sangue nel mio,
quest'alveo stellato e azzurro come la notte,
questa semplicità senza fine della tenerezza.
Sera
Tarde
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LIV
Splendida ragione, demonio chiaro
del grappolo assoluto, del retto mezzogiorno,
siam qui alfine, senza solitudine e soli,
lungi dal delirio delle città selvagge.
Quando la linea pura circonda la sua colomba
e il fuoco decora la pace col suo alimento
tu e io erigiamo questo celeste risultato.
Ragione e amore nudi vivono in questa casa.
Sogni furiosi, fiumi d'amara certezza,
decisione più dure del sonno di un martello
caddero nella duplice coppia degli amanti.
Finché nella bilancia s'elevaron, gemelli,
la ragione e l'amore come due ali.
Così si costruì la trasparenza.
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LV
Spine, vetri rotti, malattie, pianto
assedian giorno e notte il miele dei felici
e non servon la torre, il viaggio, i muri:
penetra la sventura la pace dei dormienti,
sale e scende il dolore e avvicina i suoi cucchiai,
non v'è uomo senza questo movimento,
nascita non v'è, tetto né chiuso:
occorre tener conto di quest'attributo.
Nell'amore neppure valgon occhi chiusi,
profondi letti, lungi dal pestilente ferito,
o da colui che a passo a passo conquista la sua bandiera.
Perché la vita batte come collera o fiume
e apre una galleria insanguinata per dove ci spiano
gli occhi di un'immensa famiglia di dolori.
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LVI
Abìtuati a vedere dietro di me l'ombra
e le tue mani escano dal rancore, trasparenti,
come se nel mattino del mare fossero create:
ti diede il sale, amor mio, proporzione cristallina.
L'invidia soffre, muore, finisce col mio canto.
A uno a uno agonizzano i suoi tristi capitani.
Io dico amore, e si popola il mondo di colombe.
Ogni mia sillaba reca la primavera.
Allora tu, fiorita, cuore, beneamata,
sopra i miei occhi come i fogliami del cielo
stai, e io t'osservo distesa sulla terra.
Vedo il sole trasmigrare grappoli al tuo volto,
guardando verso l'alto riconosco i tuoi passi.
Matilde, beneamata, diadema, benvenuta!
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LVII
Mentono quelli che dicono ch'io persi la luna,
quelli che profetizzarono il mio avvenire d'arena,
affermaron tante cose con lingue fredde:
vollero proibire il fior dell'universo.
«Più non canterà l'ambra ribelle
della sirena, non ha che popolo».
E masticavan le lor carte incessanti
patrocinando l'oblio per la mia chitarra.
Io gli gettai negli occhi le lance abbacinanti
del nostro amore che penetravano il tuo cuore e il mio,
reclamai il gelsomino che lasciavan le tue orme,
mi persi di notte senza luce sotto le tue palpebre
e quando la chiarità mi avvolse
nacqui di nuovo, padrone della mia tenebra stessa.
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LVIII
Tra gli spadoni di ferro letterario
passo come un marinaio remoto
che non conosce angoli di strada e canta
perché sì, perché come se non fosse per questo.
Dai tormentati arcipelaghi portai
la mia fisarmonica con burrasche, raffiche di pioggia pazza,
e un'abitudine lenta di cose naturali:
esse determinarono il mio cuore silvestre.
Così quando i denti della letteratura
cercarono di mordere i miei onorati talloni,
passai, senza sapere, cantando col vento
verso i magazzini piovosi della mia infanzia,
verso i boschi freddi del Sud indefinibile,
verso dove la mia vita s'empì del tuo aroma.
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LIX
(G.M.)
Poveri poeti che la vita e la morte
perseguitarono con la stessa cupa tenacia,
poi son coperti d'impassibile pompa,
abbandonati al rito e al dente funerario.
Essi - oscuri come pietruzze - ora
dietro agli alteri cavalli, distesi
vanno, alfine governati dagli intrusi,
tra i becchini, a dormire senza silenzio.
Anzi, ormai sicuri, che il morto è morto
fanno delle esequie un festino miserabile
con tacchini, maiali e altri oratori.
Spiarono la loro morte e allora l'offesero:
solo perché la loro bocca è chiusa
e più non può rispondere al canto.
Cento sonetti d'amore
di Pablo Neruda
SONETTO LX
Colui che volle ferirmi te ferisce,
e il colpo del veleno contro me diretto
come per una rete passa pei miei lavori
e in te lascia una macchia d'ossido e d'insonnia.
Non voglio vedere, amore, sulla luna fiorita
della tua fronte passar l'odio che mi spia.
Non voglio che nel tuo sonno l'altrui rancore lasci
dimenticata l'inutile corona di coltelli.
Dove vado mi seguono passi amari,
dove rido una smorfia d'orrore copia il mio volto,
dove canto l'invidia maledice, ride e rode.
Ed è quella, amore, l'ombra che la vita m'ha dato:
è un vestito nuovo che mi segue zoppicando
come uno spaventapasseri dal sorriso insanguinato.
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