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Cento Sonetti d'Amore di Pablo Neruda

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XXXI

Con allori del Sud e origano di Lota
t'incorono, piccola regina delle mie ossa,
e non può mancarti quella corona
che elabora la terra con balsamo e fogliame.

Sei, come colui che t'ama, delle province verdi:
di là traemmo il sangue che ci scorre nel sangue,
nella città vaghiamo, come tanti, sperduti,
timorosi che chiudano il mercato.

Beneamata, la tua ombra ha odore di susina,
i tuoi occhi nascosero nel Sud le loro radici,
il tuo cuore è una colomba da salvadanaio,

il tuo corpo è liscio come le pietre nell'acqua,
i tuoi baci sono grappoli con rugiada,
e al tuo fianco io vivo con la terra.

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XXXII

La casa nel mattino con la verità sossopra
di lenzuola e di penne, l'origine del giorno
senza rotta, errante come una povera barca,
tra gli orizzonti dell'ordine e del sonno.

Le cose vogliono trascinare vestigia,
aderenze senza rotta, eredità fredde,
le carte nascondono vocali grinzose,
nella bottiglia il vino vuol seguire il suo ieri.

Ordinatrice, passi vibrando come ape
toccando le ragioni perdute dall'ombra
conquistando la luce con la tua bianca energia.

Allora di nuovo si costruisce la chiarezza:
le cose ubbidiscono al vento della vita
e l'ordine stabilisce il suo pane e la sua colomba.

Mezzogiono
Mediodia
Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

Sonetto XXXIII

Amore, ora andiamo alla casa
dove il rampicante sale per le scale:
prima che tu arrivi è giunta alla tua stanza
l'estate nuda con piedi di caprifoglio.

I nostri baci erranti percorsero il mondo:
Armenia, densa goccia di miele dissotterrato,
Ceylon, colomba verde e lo Yang Tsè che separa 
con antica pazienza i giorni dalle notti.

E ora, beneamata, per il mar crepitante
torniamo come due uccelli ciechi al muro,
al nido della lontana primavera,

perchè l'amore non può volar senza fermarsi:
al muro o alle pietre del mare van le nostre vite,
al nostro territorio son tornati i baci.

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XXXIV

Sei figlia del mare e cugina dell'origano,
nuotatrice, il tuo corpo è d'acqua pura,
cuciniera, il tuo sangue è terra viva
e fiorite le tue abitudini e terrestri.

Vanno all'acqua i tuoi occhi e sollevan onde,
alla terra le tue mani e saltano i semi,
in acqua e in terra hai proprietà profonde
che s'uniscono in te come le leggi della creta.

Naiade, il tuo corpo taglia il turchese,
poi risorto fiorisce nella cucina
in tal modo che assumi quanto esiste

e alfine dormi circondata dalle mie braccia che allontanano
dall'ombra cupa, perché tu riposi,
legumi, alghe, erbe: la schiuma dei tuoi sogni.

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XXXV

La tua mano andò volando dai miei occhi al giorno.
La luce entrò come un roseto aperto.
Arena e cielo palpitavano come un
culminante alveare tagliato nel turchese.

La tua mano toccò sillabe che tintinnavano, coppe,
oliere, piene d'oli gialli,
corolle, fonti e, soprattutto, amore,
amore: la tua mano pura preservò i cucchiai.

La sera se n'andò. La notte fece scender con cautela
sopra il sonno dell'uomo la sua capsula celeste.
Un triste odor selvaggio sprigionò la madreselva.

E la tua mano tornò dal volo volando
a chiudere il suo piumaggio ch'io credetti perso
sopra i miei occhi divorati dall'ombra.

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XXXVI

Cuor mio, regina dell'apio e della madia:
piccola leoparda del filo e della cipolla:
mi piace veder brillare il tuo impero minuscolo,
le armi della cera, del vino, dell'olio,

dell'aglio, della terra delle tue mani aperta
della sostanza azzurra accesa nelle tue mani,
della trasmigrazione dal sonno all'insalata,
del rettile arrotolato alla canna.

Tu che con la potatrice sollevi il profumo,
tu, con la direzione del sapone nella schiuma,
tu, che sali le mie pazze scale e scale,

tu, che maneggi il sintoma della mia calligrafia
e trovi nell'arena del quaderno
le lettere smarrite che cercavano la tua bocca.

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XXXVII

Oh amore, oh lampo pazzo e minaccia purpurea,
mi visiti e sali per la tua fresca scala
il castello che il tempo coronò di nebbie,
le pallide pareti del cuore chiuso.

Nessuno saprà che fu solo la delicatezza
che costruì i cristalli duri come città
e che il sangue apriva gallerie sventurate
senza che la sua monarchia abbattesse l'inverno.

Per questo, amore, la tua bocca, la pelle, la luce, le tue pene,
furono il patrimonio della vita, i doni
sacri della pioggia, della natura

che riceve e innalza la gravidanza del grano,
la tempesta segreta del vino nelle cantine,
la fiammata del cereale sulla terra.

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XXXVIII

La tua casa risuona come un treno a mezzogiorno,
ronzano le vespe, cantan le casseruole,
la cascata enumera i fatti della rugiada,
il tuo riso svolge il suo gorgheggio di palma.

La luce azzurra del muro conversa con la pietra,
giunge come un pastore fischiando un telegramma
e tra i fichi dalla voce verde
Omero sale con scarpe prudenti.

Solo qui la città non ha voce né pianto,
né infinito, né sonate, né labbra, né tromba,
ma un discorso di cascata e di leoni,

e tu che sali, canti, corri, cammini, scendi,
pianti, cuci, cucini, inchiodi, scrivi torni
o sei partita e si sa ch'è iniziato l'inverno.

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XXXIX

Dimenticai però che le tue mani compiacevano
le radici, innaffiando rose intricate,
finché fiorirono le tue ombre digitali
nella plenaria pace della natura.

La zappa e l'acqua come animali tuoi
t'accompagnano, mordendo e lambendo la terra,
ed è così che, lavorando, emani
fecondità, freschezza ardente di garofani.

Amore e onore d'api chiedo per le tue mani
che nella terra confondono la loro stirpe trasparente,
e fin entro il mio cuore aprono la loro agricoltura,

in tal modo che sono come pietra bruciata
che d'improvviso, con te, canta, perché riceve
l'acqua dei boschi condotta dalla tua voce.

Cento sonetti d'amore 
di  Pablo Neruda

SONETTO XL

Era verde il silenzio, bagnata era la lice,
tremava il mese di Giugno come una farfalla,
e nell'australe dominio, dal mare e dalle pietre,
Matilde, attraversasti il meriggio.

Eri carica di fiori ferruginosi,
alghe che il vento sud tormenta e oblìa,
ancor bianche, screpolate dal sale divorante,
le tue mani sollevano le spighe d'arena.

Amo i tuoi doni puri, la tua pelle di pietra intatta,
le tue unghie offerte nel sole delle tue dita,
la tua bocca sparsa per tutta la gioia,

ma, per la mia casa prossima all'abisso,
dammi il tormentato sistema del silenzio,
lo stendardo del mare dimenticato sull'arena.

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