Gli ebrei del Ghetto romano
di Elsa Morante
Di fronte alla vincita sensazionale del suo consocio (che nel giro di una luna, divorata l'Europa intera, già toccava il traguardo di Parigi) per garantirsi la propria porzione di gloria entrò in guerra al suo fianco.
Era il mese di giugno del 1940; e Ninnuzzu, che aveva allora quattordici anni, accolse la notizia con piacere, sebbene contrariato per il ritardo. S'era stufato, difatti, d'aspettare che il suo Duce si decidesse a questa nuova azione grandiosa.
Di tutta l'incalzante vicenda mondiale, Iduzza non seguiva il corso, se non per gli annunci di strepitose vittorie hitleriane che le riecheggiavano in casa attraverso la voce di Nino.
Nei giorni dell'entrata in guerra dell'Italia, le capitò di ascoltare diverse opinioni sull'evento.
Chiamata al pomeriggio dal Preside del Ginnasio, per via di certe assenze ingiustificate di suo figlio Nino, trovò il personaggio in uno stato raggiante d'euforia per la tempestiva decisione del Duce: «Noi siamo», le dichiarò il personaggio con grande enfasi, «per la pace nella vittoria, al minor costo possibile!
E oggi, che la guerra-lampo dell'Asse sta per toccare la mèta della pace, plaudiamo alla lungimiranza del Capo, che assicura alla nostra Patria i vantaggi del successo col massimo risparmio. In una sola tappa, e senza rimetterci nemmeno il consumo delle gomme, eccoci già in volata al finale, giusto a ruota con la Maglia Gialla!. Simile discorso autorevole s'impose a Ida, senza replica.
Per quanto lei ne capiva, anche i suoi colleghi della scuola elementare, dei quali essa orecchiava i discorsi nei corridoi, la pensavano, più o meno, come il preside del ginnasio.
Solo una custode anziana (chiamata dai bambini Barbetta per una poca lanugine senile che le cresceva sul mento) era stata da lei sorpresa, mentre, a fini di scongiuro, andava toccando le porte e via via borbottando in sordina che questa
Per contro, la mattina stessa, al suo ingresso nella scuola, il portiere, marciando per l'androne come un conquistatore, l'aveva salutata con questa frase: «Signora Mancuso, quando entriamo a Parigi?».
E d'altra parte, più tardi, rincasando, essa aveva udito il garzone del panettiere che sulla soglia dell'osteria, tutto aggrondato, confidava all'oste: «A senso mio, l'Asse Roma-Berlino è storto. Anvedi che robba! Quelli là, i Berlinesi, fanno le carognate - e noi, qua de Roma, je damo pure 'na mano! ! » ...Fra tali opinioni discordi, la povera Iduzza, per conto suo, non osava formulare giudizi.
Ai tanti misteri dell'Autorità che la intimorivano, s'era aggiunta, adesso, la parola ariani, che lei, prima, aveva sempre ignorato.
A ogni modo, adesso, Ida imparava che gli ebrei erano diversi non solo perché ebrei, ma anche perché non ariani.
Nemmeno da sua madre, essa non aveva udito mai questo titolo «ariani», anzi lo stesso titolo di ebrei per la piccola Iduzza era rimasto un oggetto di grande mistero. Dopo la sua denuncia all'anagrafe, Ida aveva ripreso la stessa vita di prima.
Campava proprio come un'ariana fra gli ariani, nessuno pareva dubitare della sua arianità completa, e le rare volte che dovette esibire i suoi documenti (per esempio alla Cassa Stipendi), sebbene il cuore le ballasse in petto, il cognome di sua madre passò del tutto inosservato. Il suo segreto razziale pareva sepolto, una volta per tutte, negli archivi dell'Anagrafe; però lei, sapendolo registrato in quei loculi misteriosi, tremava sempre che una qualche notizia ne trapelasse all'esterno, segnando lei stessa, ma Nino soprattutto!, col marchio dei reprobi e degli impuri. Inoltre, specie a scuola, nell'esercitare, lei, mezza ebrea clandestina, i diritti e le funzioni dovuti agli Ariani, si sentiva in colpa, come un' abusiva e una falsaria.
Anche nel giro delle sue spese quotidiane, essa aveva il sentimento di andare mendicando, come un cucciolo orfano e randagio, nel territorio altrui.
Finché da un giorno all'altro, lei che prima delle leggi razziali non aveva incontrato mai nessun ebreo fuori Nora, s'orientò a preferenza nella cerchia del Ghetto romano, verso le bancarelle e le botteghe di certi ebreucci ai quali ancora a quel tempo era permesso di seguitare nei loro poveri traffici di prima.
Da principio, la sua timidezza la portò a trattare solo con certi tipi di vecchi, dagli occhi mezzi spenti e dalla bocca sigillata. Però il caso, via via, le procurò qualche conoscenza meno taciturna, in genere qualche donna del posto, che, forse incoraggiata dai suoi occhi semiti, chiacchierava con lei di passaggio.
Di qui essa ricavava il suo principale notiziario storico-politico, giacché, con gli ariani, evitava certi argomenti, e anche dei comuni mezzi d'informazione, per un motivo o per l'altro, se ne serviva poco.
Non troppo distante dalla sua scuola, il Ghetto era un piccolo quartiere antico, segregato - fino al secolo scorso - con alte muraglie e cancelli che venivano chiusi alla sera; e soggetto - di quei tempi - alle febbri, per via dei vapori e della melma del Tevere vicino, che ancora non aveva argini.
Da quando il vecchio quartiere era risanato e le muraglie abbattute, il suo popolo non aveva fatto che moltiplicarsi; e adesso, in quelle solite quattro straducce e due piazzette, ci si arrangiavano a stare a migliaia. Cerano molte centinaia di pupetti e ragazzini, per lo più ricetti, con gli occhi vispi; e ancora al principio. della guerra, avanti che incominciasse la grande fame, ci giravano diversi gatti, domiciliati fra le rovine del Teatro di Marcello, a un passo di là.
Gli abitanti, per la maggior parte, facevano i venditori ambulanti o gli stracciaiuoli, che erano i soli mestieri permessi dalla legge agli ebrei nei passati secoli, e che poi fra poco, nel corso della guerra, gli sarebbero stati proibiti, anche questi, dalle nuove leggi fasciste.
Pochi di loro disponevano, al massimo, di qualche locale a pianterreno per uso di rivendita o deposito della roba. E queste, più o meno, erano tutte le risorse del piccolo villaggio: dove i decreti razziali del 1938, tuttora invariati, non avevano potuto mutare di molto le sorti.
In certe famiglie del quartiere, si aveva appena notizia di quei decreti, come di questioni riguardanti i pochi ebrei signori, che abitavano sparsi nei quartieri borghesi della città.
E in quanto a varie altre minacce, che circolavano oscure, i notiziari, che Ida ne raccattava laggiù, erano monchi e confusi. In generale, fra le sue conoscenti delle bottegucce, regnava una incredulità ingenua e fiduciosa.Tante no tizie erano invenzioni della propaganda.
E poi, in Italia certe cose non potrebbero mai succedere.
Esse confidavano nelle amicizie importanti (o anche nelle benemerenze fasciste) dei Capi della Comunità o del Rabbino; nella benevolenza di Mussolini verso gli Ebrei; e addirittura nella protezione del Papa (mentre i papi, in realtà, nel corso dei secoli, erano stati fra i loro peggio persecutori).
A chi, fra loro, si mostrava più scettico, esse non volevano credere...
Ma invero, nel loro stato, non avevano altra difesa.
Fra costoro, ci si incontrava, ogni tanto, una ragazza invecchiata di nome Vilma, trattata, là in giro, per una mentecatta. I muscoli del suo corpo e del suo volto erano sempre inquieti, e lo sguardo, invece, estatico, troppo luminoso.
Era rimasta orfana assai presto, e, per incapacità d'altro, si adattava a servizi pesanti, come un facchino.
Da qualche tempo Vilma, attraverso i suoi giri quotidiani di faticante, riportava nel Ghetto delle informazioni strane e inaudite, che le al tre donne rifiutavano come fantasie del suo cervello.
Attualmente, nei suoi messaggi ossessivi quanto inutili, costei di continuo insisteva con l'avviso di mettere in salvo, almeno, le creature, affermando di aver saputo in confidenza dalla sua monaca che nella storia prossima era segnata una nuova strage peggio di quella di Erode.
Non appena occupavano un paese, per prima cosa i tedeschi ammassavano da una parte tutti gli ebrei senza eccezione, e di là li trascinavano via, fuori dei confini, non si sapeva dove «nella notte e nella nebbia». I più morivano in cammino, o cadevano prostrati.
E tutti costoro, morti e vivi, venivano buttati uno sull'altro in fosse enormi, che i loro parenti o compagni erano costretti a scavare in loro presenza. I soli lasciati sopravvivere, erano gli adulti più robusti, condannati a lavorare come schiavi per la guerra.
E i bambini venivano massacrati tutti, dal primo all'ultimo, e buttati nelle fosse comuni lungo la strada.
Un giorno, a questi discorsi di Vilma, ci si trovava, oltre a Iduzza, pure una donnetta anziana, dimessa nel vestito ma col cappellino in testa.
Essa, a differenza della bottegaia, assentì con gravità alle lamentazioni insane e roche di Vilma. Anzi (parlando a bassa voce per paura delle spie) intervenne affermando di avere udito lei stessa, da un
sottufficiale dei carabinieri, che secondo la legge dei tedeschi gli ebrei erano pidocchi, e andavano tutti sterminati. Alla vittoria, certa e ormai vicina, dell'Asse, pure l'Italia sarebbe diventata territorio del Reich, e
soggetta alla medesima legge definitiva.
Su San Pietro, al posto della croce cristiana, avrebbero messo la croce uncinata; e pure gli stessi cristiani battezzati, per non venire scritti nella lista nera, dovevano provare i loro sangui ariani,
FINO ALLA QUARTA GENERAZIONE!
E non per niente, aggiunse, tutta la gioventù ebrea di buona famiglia, che aveva i mezzi, s'era emigrata dall'Europa, chi in America e chi in Australia, finché s'era stati in tempo. Ma oramai, coi mezzi o senza
mezzi, tutte le frontiere erano chiuse, non s'era più in tempo.
«Chi sta drento, sta drento. E chi sta fora, sta fora».
EIsa Morante (Roma 1912-1985) già fra i tredici e ì quattordici anni aveva pubblicato una raccolta di racconti che rivelavano la sua disposizione all'inventiva fantastica e al fiabesco. Dopo alcune raccolte, fra cui lo scialle andaluso, passò al romanzo con Menzogna e sortilegio e l'isola di Arturo, e alla poesia con il poema Il mondo salvato dai ragazzini.
Fra il 1971 e il 1974 scrisse la sua opera più ambiziosa, il romanzo la storia, che abbandona i toni fantastici e racconta invece in una dimensione storico-realistica la breve vita del piccolo Useppe, nato durante la Seconda guerra mondiale da una maestrina di origini ebraiche, Ida, e da un soldato tedesco.
Lo sfondo è quello di una Roma in guerra, colpita dai bombardamenti, affamata e sgomenta.
Nelle pagine che seguono, tratte, appunto, dal romanzo la storia, leggerai dell'applicazione delle prime leggi razziali in Italia, nel 1940.
Ida, che è figlia di madre ebrea e si è già autodenunciata, vive con confusione e sgomento l'entrata in guerra dell'Italia.
Sempre più estranea al mondo degli ariani, si avvicina a quello degli ebrei.
dal romanzo La Storia