Diario del viaggio verso la libertà
di Primo Levi
I sognatori
Leonardo cercava di nascondermelo, ma non ci vedeva chiaro, ed era seriamente preoccupato del mio male. Che cosa fosse esattamente, sembrava difficile stabilire, poiché tutto il suo armamentario professionale si riduceva a uno stetoscopio, e ottenere dai russi il mio ricovero presso l’ospedale civile di Katowice sembrava, oltre che assai difficile, anche poco consigliabile; dal dottor Dancenko, poi, non c’era molto aiuto da sperare. Cosí rimasi per vari giorni sdraiato e immobile, trangugiando solo qualche sorsata di brodo, poiché ad ogni movimento che cercassi di fare, e ad ogni boccone solido che cercassi di inghiottire, il dolore si risvegliava rabbioso e mi mozzava il respiro.
Dopo una settimana di tormentosa immobilità, Leonardo, a furia di tamburellarmi la schiena e il petto, riuscí a distinguere un segno: era una pleurite secca, annidata insidiosamente fra i due polmoni, a carico del mediastino e del diaframma.
Fece allora molto piú di quello che normalmente ci si aspetta da un medico. Si mutò in mercante clandestino e in contrabbandiere di medicinali, validamente aiutato da Cesare, e percorse a piedi decine di chilometri in città, da un indirizzo all’altro, in caccia di sulfammidici e di calcio endovenoso. In fatto di medicamenti non ebbe gran successo, perché i sulfammidici erano scarsissimi e non si trovavano che in borsa nera a prezzi per noi inaccessibili; ma trovò qualcosa di meglio. Scovò in Katowice un misterioso confratello, che disponeva di uno studio non molto legale ma bene attrezzato, di un armadietto farmaceutico, di molti quattrini e tempo libero, e che infine era italiano o quasi. Per verità, tutto quanto riguardava il dottor Gottlieb era involto in una fitta nube di mistero. Parlava perfettamente l’italiano, ma altrettanto bene il tedesco, il polacco, l’ungherese e il russo. Veniva da Fiume, da Vienna, da Zagabria e da Auschwitz.
Ad Auschwitz era stato, ma in che qualità e condizione non disse mai, né era uomo a cui fosse facile porre domande.
Né era facile capire come in Auschwitz fosse sopravvissuto, poiché aveva un braccio anchilosato; ed ancora meno facile immaginare
per quali segrete vie, e con quali fantastiche arti, fosse riuscito a rimanere sempre insieme con un fratello e con un altrettanto misterioso cognato, e a diventare in pochi mesi, partendo dal Lager, e in barba ai russi e alle leggi, un uomo facoltoso e il medico piú stimato di Katowice.
Era un personaggio mirabilmente armato. Emanava intelligenza e astuzia come il radio emana energia: con la stessa silenziosa e penetrante continuità, senza sforzo, senza sosta, senza segni di esaurimento, in tutte le direzioni a un tempo.
Che fosse un medico abile, era evidente al primo contatto. Se poi questa sua eccellenza professionale fosse solo un aspetto, una faccetta della
sua altezza di ingegno, o se fosse questo propriamente il suo strumento di penetrazione, la sua arma segreta per farsi amici i nemici, per vanificare i divieti, per mutare i no in sí, non potei mai stabilire: anche questo faceva parte della nuvola che lo avvolgeva e che si spostava
con lui. Era una nuvola quasi visibile, che rendeva mal decifrabili il suo sguardo e i lineamenti del suo viso, e faceva sospettare, sotto ogni sua azione, ogni sua frase, ogni suo silenzio, una tattica e una tecnica, il perseguimento di finalità impercettibili, un continuo scaltro lavorio
di esplorazione, di elaborazione, di inserimento e di possesso.
Ma l’ingegno del dottor Gottlieb, tutto teso a fini pratici, non era tuttavia disumano. Era cosí abbondante in lui la sicurezza, l’abitudine alla vittoria, la fiducia in se stesso, che ne avanzava una grossa razione da stanziare in aiuto del suo prossimo meno dotato; e in specie in aiuto nostro, di noi sfuggiti come lui alla trappola mortale del Lager, circostanza alla quale egli si mostrava stranamente sensibile.
Gottlieb mi portò la salute come un taumaturgo. Venne una prima volta a studiare il caso, poi varie altre munito di fiale e siringhe, e un’ultima volta, in cui mi disse: – Alzati e cammina – Il dolore era scomparso, il mio respiro era libero; ero molto debole e avevo fame, ma mi alzai, e potevo camminare. Tuttavia, per una ventina di giorni ancora non uscii dalla camerata. Passavo le interminabili giornate coricato, leggendo avidamente i pochi libri scompagnati che riuscivo a catturare: una grammatica inglese in polacco, Marie Walewska, le tendre amour de Napoléon, un manuale di trigonometria elementare, Rouletabille alla riscossa, I forzati della Cajenna, e un curioso romanzo di propaganda nazista, Die Grosse Heimkehr («Il Grande Rimpatrio»), che rappresentava il tragico destino di un villaggio galiziano di pura razza tedesca, angariato, saccheggiato, e infine distrutto, dalla feroce Polonia del maresciallo Beck.
Era triste stare fra quattro muri, mentre fuori l’aria era piena di primavera e di vittoria, e dai boschi non lontani il vento portava odori stimolanti,
di muschio, di erba nuova, di funghi; ed era umiliante dover dipendere dai compagni anche per le necessità piú elementari, per ritirare il cibo alla mensa, per avere acqua, nei primi giorni perfino per cambiare posizione nel letto.
I miei compagni di camerata erano una ventina, fra cui Leonardo e Cesare; ma il personaggio di maggior formato, il piú notevole, era il decano fra loro, il Moro di Verona. Doveva discendere da una stirpe tenacemente legata alla terra, poiché il suo vero nome era Avesani, ed era di Avesa, il sobborgo dei lavandai di Verona celebrato da Berto Barbarani. Aveva piú di settant’anni, e li dimostrava tutti: era un gran vecchio scabro dall’ossatura da dinosauro, alto e ben dritto sulle reni, forte ancora come un cavallo, benché l’età e la fatica avessero tolto ogni scioltezza
alle sue giunture nodose. Il suo cranio calvo, nobilmente convesso, era circondato alla base da una corona di capelli candidi: ma la faccia scarna e rugosa era di un olivastro itterico, e violentemente gialli e venati di sangue lampeggiavano gli occhi, infossati sotto enormi archi ciliari
come cani feroci in fondo alle loro tane. Nel petto del Moro, scheletrico eppure poderoso, ribolliva senza tregua una collera gigantesca ma indeterminata: una collera insensata contro tutti e tutto, contro i russi e i tedeschi, contro l’Italia e gli italiani, contro Dio e gli uomini, contro se stesso e contro noi, contro il giorno quando era giorno e contro la notte quando era notte, contro il suo destino e tutti i destini, contro il suo
mestiere che pure aveva nel sangue. Era muratore: aveva posato mattoni per cinquant’anni, in Italia, in America, in Francia, poi di nuovo in Italia, infine in Germania, e ogni suo mattone era stato cementato con bestemmie.
Bestemmiava in continuazione, ma non macchinalmente; bestemmiava con metodo e con studio, acrimoniosamente, interrompendosi per cercare la parola giusta, correggendosi spesso, e arrovellandosi quando la parola giusta non si trovava: allora bestemmiava contro la bestemmia
che non veniva. Che fosse cinto da una disperata demenza senile, non v’era dubbio: ma c’era grandezza in questa sua demenza, e anche forza, e una barbarica dignità, la dignità calpestata delle belve in gabbia, la stessa che redime Capaneo e Calibano.
Il Moro non si alzava quasi mai dalla branda. Vi stava sdraiato tutto il giorno, con gli enormi piedi gialli e ossuti che sporgevano di due spanne fino in mezzo alla camerata; accanto gli giaceva a terra un grosso fagotto informe, che nessuno di noi mai avrebbe osato toccare.
Conteneva, pare, tutti i suoi averi su questa terra; all’esterno dell’involto stava appesa una pesante scure da boscaiolo.
Il Moro, per solito, fissava il vuoto con occhi insanguinati e taceva; ma bastava il minimo stimolo, un rumore nel corridoio, una domanda che gli venisse rivolta, un incauto contatto contro i suoi piedi ingombranti, una fitta di reumatismo, e il suo petto profondo si sollevava come il mare quando gonfia in tempesta, e il meccanismo del vituperio si rimetteva in movimento.
Fra noi era rispettato, e temuto di un timore vagamente superstizioso. Solo Cesare lo avvicinava, con la famigliarità impertinente degli uccelli che razzolano sulla groppa rocciosa dei rinoceronti e si divertiva a provocarne la collera con domande insulse e indecenti.
Accanto al Moro abitava l’inetto Ferrari dei pidocchi, l’ultimo della classe alla scuola di Loreto. Ma nella nostra camerata non era lui il solo membro della confraternita di San Vittore: essa era rappresentata notabilmente anche dal Trovati e da Cravero.
Il Trovati, Ambrogio Trovati detto Tramonto, non aveva piú di trent’anni; era di piccola statura, ma muscoloso e agilissimo. «Tramonto», ci aveva spiegato, era un nome d’arte: ne andava fiero, e gli si attagliava a pennello, perché era un uomo ottenebrato, che viveva di fantasiosi espedienti in uno stato d’animo di perpetua ribellione frustrata. Aveva trascorso adolescenza e giovinezza fra la prigione e il palcoscenico, e sembrava che le due istituzioni non fossero nettamente divise nella sua mente confusa. La prigionia in Germania, poi, doveva avergli dato il colpo di grazia.
Nei suoi discorsi, il vero, il possibile e il fantastico erano intrecciati in un groviglio vario e inestricabile.
Raccontava della prigione e del tribunale come di un teatro, in cui nessuno è veramente se stesso, ma gioca, dimostra la sua abilità, entra nella pelle di un altro, recita una parte; e il teatro, a sua volta, era un gran simbolo oscuro, uno strumento tenebroso di perdizione, la manifestazione
esterna di una setta sotterranea, malvagia e onnipresente, che impera a danno di tutti, e che viene a casa tua, ti prende, ti mette una maschera, ti fa diventare quello che non sei e fare quello che non vuoi. Questa setta è la Società: il gran nemico, contro cui lui Tramonto
aveva combattuto da sempre, e sempre era stato sopraffatto, ma ogni volta era eroicamente risorto.
Era la Società che era discesa a cercarlo, a sfidarlo. Lui viveva nell’innocenza, nel paradiso terrestre: era barbiere, padrone di bottega, ed era stato visitato. Erano venuti due messaggeri a tentarlo, a fargli la satanica proposta di vendere la bottega e darsi all’arte.
Conoscevano bene il suo punto debole: lo avevano adulato, avevano lodato le forme del suo corpo, la sua voce, l’espressione e la mobilità del suo viso. Lui aveva resistito due, tre volte poi aveva ceduto, e con in mano l’indirizzo del teatro di posa si era messo a girare per Milano.
Ma l’indirizzo era falso, da ogni porta lo rimandavano a un’altra porta; finché si era accorto della congiura. I due messaggeri, nell’ombra, lo avevano seguito con la macchina da presa puntata, avevano rubato tutte le sue parole e i suoi gesti di disappunto, e cosí lo avevano fatto diventare attore a sua insaputa. Gli avevano rubato l’immagine, l’ombra, l’anima. Eran stati loro a farlo tramontare, e a battezzarlo «Tramonto».
Cosí era finita per lui: era nelle loro mani. Il negozio venduto, contratti niente, soldi pochi, qualche particina ogni tanto, qualche furto per tirare avanti. Fino alla sua grande epopea, l’omicidio polposo. Aveva incontrato per strada uno dei suoi seduttori, e l’aveva accoltellato: si era reso reo di omicidio polposo, e per questo suo delitto era stato trascinato in tribunale. Ma non aveva voluto avvocati, perché il mondo intero, fino all’ultimo uomo, era contro di lui, e lui lo sapeva. E tuttavia era stato cosí eloquente e aveva esposto cosí bene le sue ragioni, che la Corte lo aveva assolto su due piedi con una grande ovazione, e tutti piangevano.
Questo leggendario processo stava al centro della nebulosa memoria del Trovati; lo riviveva in ogni istante della giornata, non parlava d’altro, e spesso, a sera dopo cena, costringeva noi tutti ad assecondarlo, e a ripetere il suo processo in una sorta di sacra rappresentazione.
Assegnava a ciascuno la sua parte: tu il presidente, tu il pubblico ministero, voi i giurati, tu il cancelliere, voi altri il pubblico, e a ciascuno assegnava perentoriamente la sua parte. Ma l’imputato, e ad un tempo l’avvocato difensore, era sempre e solo lui, e quando ad ogni replica
giungeva l’ora del sua torrenziale arringa, spiegava prima, in un rapido «a parte», che l’omicidio polposo è quando uno pianta il coltello non nel petto, o nella pancia, ma qui, fra il cuore e l’ascella, nella polpa; ed è meno grave.
Parlava senza interrompersi, appassionatamente, per un’ora filata, tergendosi dalla fronte sudore autentico; poi, gettandosi con ampio gesto sulla spalla sinistra una toga inesistente, concludeva – Andate, andate, o serpi, a depositare il vostro veleno!
Il terzo di San Vittore, il torinese Cravero, era invece un furfante compiuto, incontaminato, senza sfumature, di quelli che è raro trovare, e in cui sembrano prendere corpo e figura umana le astratte ipotesi criminose del codice penale. Conosceva bene tutte le galere d’Italia, e in
Italia aveva vissuto (lo ammetteva senza ritegno, anzi con vanto) di furti, rapine e sfruttamento. Con queste arti in mano, non aveva trovato alcuna difficoltà a sistemarsi in Germania: con la Organizzazione Todt aveva lavorato soltanto un mese, a Berlino, poi era sparito, mimetizzandosi agevolmente sul fondo buio della malavita locale.
Dopo due o tre tentativi, aveva trovato una vedova che andava bene. Lui la aiutava con la sua esperienza, le procurava clienti, e si occupava della parte finanziaria nei casi controversi, fino alla coltellata compresa; lei lo ospitava. In quella casa, malgrado le difficoltà della lingua, e certe curiose abitudini della sua protetta, si trovava perfettamente a suo agio.