La Divina Commedia di Dante Alighieri, un poema diviso in tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Dante Alighieri, poeta, scrittore e politico (Firenze 1265 - Ravenna 1321) Considerato il Padre della lingua italiana viene iindicato con l'appellativo de " Il sommo Poeta ". Universalmente conosciuto per la sua opera principale: La Divina Commedia, certamente la più grande opera in lingua italiana e capolavoro fra i più letti ed apprezzati della letteratura mondiale.
La Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Canto X
Sepolcro degli Epicurei, Farinata degli Uberti: concitato colloquio con Dante, interrotto da Cavalcante dei Cavalcanti, ansioso del figlio Guido, Predizione dell'esilio. Conoscenza del presente e del futuro nei dannati
Ora sen va per un secreto calle, tra il muro de la terra e li martìri, lo mio maestro, e io dopo le spalle. "O virtù somma, che per li empi giri mi volvi", cominciai, "com'a te piace, parlami, e sodisfammi a' miei disiri. La gente che per li sepolcri giace potrebbesi veder? Già son levati tutti i coperchi, e nessun guardia face". Ed egli a me: "Tutti saran serrati quando di Iosafàt qui torneranno coi corpi che là sù hanno lasciati. Suo cimitero da questa parte hanno con Epicuro tutti suoi seguaci, che l'anima col corpo morta fanno. Però a la dimanda che mi faci quinc'entro satisfatto sarà tosto, e al disio ancor che tu mi taci". E io: "Buon duca, non tegno riposto a te mio cuor se non per dicer poco, e tu m'hai non pur mo a ciò disposto". "O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco. La tua loquela ti fa manifesto di quella nobil patria natio a la qual forse fui troppo molesto". Subitamente questo suono uscìo d'una de l'arche; però m'accostai, temendo, un poco più al duca mio. Ed el mi disse: "Volgiti! Che fai? vedi là Farinata che s'è dritto: da la cintola in sù tutto il vedrai". Io avea già il mio viso nel suo fitto; ed el s'ergea col petto e con la fronte come avesse l'inferno a gran dispitto. E l'animose man del duca e pronte mi pinser tra le sepulture a lui, dicendo: "Le parole tue sien conte". Com'io al piè de la sua tomba fui, guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, mi dimandò: "Chi fuor li maggior tui?". Io, ch'era d'ubidir desideroso, non gliel celai, ma tutto gliel'apersi; ond'ei levò le ciglia un poco in soso; poi disse: "Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, sì che per due fiate li dispersi". "S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte", rispuos'io lui, "l'una e l'altra fiata; ma i vostri non appreser ben quell'arte". Allor surse a la vista scoperchiata un'ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s'era in ginocchie levata. Dintorno mi guardò, come talento avesse di veder s'altri era meco; e poi che il sospecciar fu tutto spento, piangendo disse: "Se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno, mio figlio ov'è? e perché non è ei teco?". E io a lui: "Da me stesso non vegno: colui ch'attende là, per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno". Le sue parole e 'l modo de la pena m'avean di costui già letto il nome; però fu la risposta così piena. Di subito drizzato gridò: "Come? dicesti "egli ebbe"? non viv'egli ancora? non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?". Quando s'accorse d'alcuna dimora ch'io facea dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora. Ma quell'altro magnanimo, a cui posta restato m'era, non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa: e sé continuando al primo detto, "S'elli han quell'arte", disse, "male appresa, ciò mi tormenta più che questo letto. Ma non cinquanta volte fia raccesa la faccia de la donna che qui regge, che tu saprai quanto quell'arte pesa. E se tu mai nel dolce mondo regge, dimmi: perché quel popolo è sì empio incontr'a' miei in ciascuna sua legge?". Ond'io a lui: "Lo strazio e 'l grande scempio che fece l'Arbia colorata in rosso, tal orazion fa far nel nostro tempio". Poi ch'ebbe sospirando il capo scosso, "A ciò non fu' io sol", disse, "né certo sanza cagion con li altri sarei mosso. Ma fui io solo, là dove sofferto fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difesi a viso aperto". "Deh, se riposi mai vostra semenza", pregai io lui, "solvetemi quel nodo che qui ha inviluppata mia sentenza. El par che voi veggiate, se ben odo, dinanzi quel che 'l tempo seco adduce, e nel presente tenete altro modo". "Noi veggiam, come quei c'ha mala luce, le cose", disse, "che ne son lontano; cotanto ancor ne splende il sommo duce. Quando s'appressano o son, tutto è vano nostro intelletto; e s'altri non ci apporta, nulla sapem di vostro stato umano. Però comprender puoi che tutta morta fia nostra conoscenza da quel punto che del futuro fia chiusa la porta". Allor, come di mia colpa compunto, dissi: "Or direte dunque a quel caduto che 'l suo nato è coi vivi ancor congiunto; e s'io fui, dianzi, a la risposta muto, fate i saper che 'l feci perché pensava già ne l'error che m'avete soluto". E già il maestro mio mi richiamava; per ch'io pregai lo spirto più avaccio che mi dicesse chi con lui istava. Dissemi: "Qui con più di mille giaccio: qua dentro è il secondo Federico, e 'l Cardinale; e de gli altri mi taccio". Indi s'ascose; e io inver l'antico poeta volsi i passi, ripensando a quel parlar che mi parea nemico. Ellli si mosse; e poi, così andando, mi disse: "Perché sei tu sì smarrito?". E io li sodisfeci al suo dimando. "La mente tua conservi quel che udito hai contra te", mi comandò quel saggio. "e ora attendi qui", e drizzò il dito: "quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell'occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il viaggio". Appresso mosse a man sinistra il piede: lasciammo il muro e gimmo inver lo mezzo per un sentier ch'ad una valle fiede, che infin là su facea spiacer suo lezzo.